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da micromega.net
C'è chi nelle ore successive agli attentati di Parigi di venerdì scorso ha avuto solo parole di ammonimento per coloro che, in maniera spontanea e immediata, hanno voluto manifestare la propria solidarietà e vicinanza al popolo francese con gesti simbolici – una foto su fb, un fiore davanti ai consolati francesi, un pensiero, una preghiera per i morti e i loro parenti. Tutti colpevoli – a detta di coloro che sempre tutto sanno – di ipocrisia: “Perché tutta questa solidarietà ai francesi, mentre ogni giorno siriani, iracheni, palestinesi, libanesi... vivono massacri ben peggiori?”. Un argomento infondato e cinico. È come se, dopo una catastrofe naturale in casa nostra, non ci fosse permesso piangere, disperarci, commuoverci e magari rimboccarci le maniche perché “ogni giorno nel mondo quante alluvioni, terremoti...”, o come se non ci fosse permesso partecipare al dolore di un nostro parente ammalato perché “sapete ogni giorno quanti malati anche più gravi soffrono e quanti soprattutto nei paesi poveri muoiono anche per un raffreddore ecc ecc”. Come non capire che questo argomento – apparentemente universalista – è invece alla base dell'individualismo più cinico? Siamo esseri finiti, la nostra empatia è strettamente legata alla vicinanza – fisica, ideale, politica, familiare – con le altre persone e il lodevolissimo tentativo di universalizzare questo sentimento di empatia fino a farci sentire anche l'essere umano più lontano da noi come un nostro parente può essere perseguito non certo negando quello nei confronti dei propri vicini, ma semmai partendo da quello.
Come non capire, poi, che per la stragrande maggioranza degli europei è uno schock ritrovarsi la guerra in casa? Dopo la fine della II guerra mondiale e con la costruzione dell'Unione europea, nei popoli d'Europa s'è diffusa la convinzione – l'illusione? – che la guerra in casa propria fosse ormai roba del passato, da leggere sui libri di storia, che i propri figli e nipoti non avrebbero mai più vissuto nel terrore. Non sorprende affatto che le reazioni a massacri come quelli di venerdì scorso siano improntate innanzitutto all'incredulità, al dolore, allo sgomento, alla paura. Sentimenti che non impediscono certo, a freddo, di fare analisi, porsi domande, cercare di capire le dinamiche economiche, sociali, politiche, religiose, ideologiche che stanno dietro alle stragi.
Tutte dinamiche dannatamente complesse e inestricabilmente interconnesse, sicché – con buona pace dei semplificatori di ogni risma – è impossibile ridurle ora a questa ora a quell'altra. Suonano davvero ingenui i dibattiti – e i nostri governanti ne sono maestri – che si focalizzano esclusivamente sul profilo ideologico-religioso del terrorismo islamico e che tutto riducono a un “è un attacco ai nostri valori, dobbiamo difendere il nostro stile di vita, non vinceranno”, senza fare minimo cenno alle dinamiche geopolitiche, alle scelte economiche, alle decisioni strategiche che sono state prese almeno negli ultimi quattordici anni. Non sono beceri complottisti a sostenere che l'attuale terrorismo islamista e persino la nascita dell'Is siano da ricondurre in ultima analisi alle scellerate scelte dei paesi occidentali nella gestione del dopo 11 settembre e in particolare alla guerra in Iraq: lo sostiene Toni Blair, che di quelle scelte porta una gran fetta di responsabilità.
Ma altrettanto ingenuo è pensare che la religione e le ideologie siano semplicemente foglie di fico per coprire dinamiche esclusivamente politico-economiche. Il riduzionismo economicista non funziona perché i moventi che spingono gli individui ad agire sono di norma un groviglio inestricabile di fattori tra loro molto eterogenei, in cui quelli religiosi e ideologici non sono pura sovrastruttura ma elementi capaci di operare direttamente nella storia, strettamente intrecciati ai fattori economici e politici. Lo dimostra molto bene la complessa condizione dei cosiddetti immigrati di seconda generazione, che poi “immigrati” non sono, perché nella stragrande maggioranza dei casi sono nati nei paesi dove i loro genitori sono immigrati, o vi sono arrivati che erano molto piccoli. Ebbene, queste persone, questi giovani, rendono palese che la costruzione della propria identità è un percorso complesso in cui giocano un ruolo fondamentale non solo fattori “di classe” ma anche elementi culturali, religiosi, linguistici che non possono essere sottovalutati.
Ecco perché il discorso sull'islam rimane fondamentale. Che “i musulmani non sono tutti fondamentalisti” è un'affermazione tanto vera quanto vuota. Perché il fatto che la stragrande maggioranza dei musulmani non sia fondamentalista non può essere argomento sufficiente per sollevare la comunità islamica dal prendere parte attiva alla lotta contro il fondamentalismo. La frase retorica “non tutti i siciliani sono mafiosi” – tecnicamente verissima – troppo spesso è usata per scrollarsi di dosso la responsabilità dei siciliani nella lotta alla mafia. Responsabilità che invece è anche (ovviamente non solo) di quei siciliani non mafiosi, che però con la loro indifferenza contribuiscono a creare il terreno favorevole per la diffusione del fenomeno mafioso. E lo dico da siciliana. Ecco, che i musulmani siano per la stragrande maggioranza pacifici e tolleranti non può costituire un alibi per l'inazione. Perché è comunque dentro la grande e frammentata e complessa e irriducibile comunità islamica che il fondamentalismo islamista trova in qualche angolo terreno fertile e spetta anche (ovviamente non solo) a quella grande e frammentata e complessa e irriducibile comunità prosciugargli il terreno intorno.
E veniamo infine a “noi”. È una guerra – si dice – ai “nostri” valori, al “nostro” stile di vita. Ma “nostri” di chi? Io e Salvini non abbiamo in comune nessun valore, nessuno stile di vita. Quali valori sono minacciati, i miei o quelli di Salvini? Sono in tanti, infatti, anche tra di “noi” che dei valori della democrazia (presa sul serio), della laicità, della libertà di pensiero, dell'autonomia dell'individuo, della sovranità di ciascuno sul proprio corpo, dei diritti dei lavoratori, dell'eguaglianza radicale di tutti i cittadini e via elencando farebbero volentieri carta straccia. E di fatti ogni giorno ci troviamo a dover condurre battaglie – in casa nostra – contro omofobi, clericali, iperliberisti, misogini e chi più ne ha più ne metta. E poiché la battaglia è costante anche appunto “in casa nostra”, non c'è alcun dubbio che l'accoglienza e l'integrazione non possono essere incondizionate – come vorrebbe un certo approccio multiculturalista – ma al contrario rigidamente ancorate ai valori costituzionali dell'eguaglianza, dell'autonomia, della libertà, la cui conquista – sempre instabile e precaria – così tanto ci è costata.
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