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Un bel funerale di Stato per Rizzotto

Creato il 21 maggio 2012 da Casarrubea

Un bel funerale di Stato per Rizzotto

Guttuso, “I funerali di Togliatti”, 1972

 

Oggi 24 maggio, dopo avere commemorato Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, caduti nella strage di Capaci, il presidente della Repubblica prenderà parte ai funerali di Stato di Placido Rizzotto, il dirigente sindacale socialista di Corleone assassinato dalla mafia il 10 marzo 1948. 

E’ la prima volta, credo, nella storia d’Italia, che un funerale si celebra dopo quasi sessantacinque anni, e con una salma quasi assente. Ma è proprio questo che rende l’evento simbolicamente forte. Perché, come è noto, Luciano Liggio, dopo avere assassinato il dirigente sindacale, lo buttò in una  foiba e da quel momento del corpo di Rizzotto, per lo Stato, non s’è avuta più traccia alcuna. Fino a quando Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel dicembre 1949, sulla scorta delle dichiarazioni di due criminali che avevano partecipato all’uccisione di Rizzotto (Criscione e Collura, assoldati dal boss Michele Navarra), riuscì a tirare fuori, in tre distinti contenitori, i resti di tre cadaveri buttati in quella stessa foiba. I familiari di Rizzotto dissero davanti a un magistrato che quelli che venivano mostrati loro erano gli indumenti del loro congiunto: scarponi, elastici, pezzi di cappotto, ecc. C’era da ritenere, quindi, che anche i resti ossei appartenessero alla stessa persona, visto che proprio quelli non potevano essere riconosciuti. Ma il tribunale fu di parere diverso e quei resti nessuno ha mai saputo che fine hanno fatto.

Solo recentemente, pare, in un’altra foiba, è stata ritrovata una tibia grazie alla quale è stato possibile confrontare il Dna del sindacalista con quello del padre Carmelo, e arrivare alla conclusione che esiste un’alta probabilità, pari al 75%, che quel reperto osseo sia proprio quello di Placido Rizzotto.

Che il sindacalista di Corleone possa avere finalmente una tomba è un atto doveroso di umanità e di civiltà. Ci dispiace, però, che lo Stato sia arrivato a questo punto, dopo un periodo di tempo così lungo e senza aver mai pronunciato una sola parola a favore di un dirigente sindacale caduto per la difesa dei diritti dei lavoratori. E la stessa o analoga sorte è toccata a tutti gli altri sindacalisti assassinati dal terrorismo mafioso nel dopoguerra siciliano (una quarantina in tutto).

Per questo ancora una volta si ripeterà l’antico procedere delle cose italiane in cui il torto si coniuga con la ragione e alla fine lascia tutti contenti. Un funerale solenne, con tanto di pennacchi e benedizioni, con la presenza del capo dello Stato, per rendere omaggio idealmente a un corpo che a quanto pare è andato disperso, e di cui rimane solo una tibia, dopo sessantacinque anni di silenzi, dinieghi,  incurie e processi conclusisi con l’assoluzione dei mafiosi. E le cose non sono cambiate.

Certo è che se oggi Placido Rizzotto potesse svegliarsi dal lungo sonno della morte e parlare ai vivi, lui che era laico e senza peli sulla lingua, direbbe ai convenuti che meglio avrebbe fatto lo Stato, prima di celebrare l’ennesimo funerale, a riconoscere ufficialmente, con un atto del Presidente della Repubblica, o governativo o con una legge del Parlamento nazionale, il suo estremo sacrificio per la causa della democrazia e della lotta alla mafia. E pretenderebbe da questo Stato non campane a morto ma leggi riparative per i familiari delle vittime.

Le chiamerebbe tutte accanto a sé. Da Andrea Raia a Nicolò Azoti, da Giovanni Castiglione e Girolamo Scaccia ad Accursio Miraglia, dai morti di Portella della Ginestra ai caduti negli assalti alle Camere del lavoro di Partinico del 22 giugno 1947, quando l’azione terroristico-mafiosa intrapresa ad Alia (Pa) con l’attentato dinamitardo contro la sede della Federterra  preseguito a Baucina e a Sciacca e poi a Portella, continuò con l’uccisione dei sindacalisti Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono, e ancora con l’uccisione di Giuseppe Maniaci della Federterra di Terrasini. E quindi, con una catena di morte interminabile,  l’uccisione del sindacalista di Marsala Vito Pipitone e di Sciara, Salvatore Carnevale (16 maggio 1955) di cui il 16 maggio si è commemorato il 57° anniversario della barbara uccisione.

Tutti delitti senza colpevoli, addirittura senza neanche un processo e senza mandanti, tranne, forse, in qualche caso, alcuni esecutori materiali.

E non dimenticherebbe certo i suoi compagni più vicini nella sua stessa sventura: Epifanio Li Puma e Calogero Cangelosi, morti in vista delle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Perché erano tutti e tre socialisti e militanti del Blocco del Popolo. E tutti gli altri, anche loro senza giustizia e senza verità.

Se potesse svegliarsi dal lungo sonno della morte direbbe che nessuna luce è stata mai resa ai caduti per la libertà e la democrazia nel nostro Paese: perché i lavoratori potessero avere riconosciuti i loro diritti e perché lo Stato non fosse spartito e colonizzato da chi aveva interesse ad impedire che i valori della Resistenza e dell’antifascismo potessero trionfare per sempre.

Rivendicherebbe per sé e per tutti i suoi compagni caduti, dal 1944 al 1960, mai riconosciuti dallo Stato, non un funerale, ma un atto riparatore, da troppo lungo tempo atteso invano. E lo farebbe consapevole di essere stato, assieme altri suoi compagni, un pioniere di questa Repubblica che avrebbe voluto più sensibile e attenta. Più giusta. Non una matrigna senza cuore e senza memoria. Se potesse svegliarsi vedrebbe scorrere davanti  ai campanili e ai palazzi le facce di coloro che morirono quando la mafia portò a compimento, con il silenzio dello Stato, la decapitazione del movimento contadino. Per un’Italia che i lavoratori non volevano: in mano ai grandi padroni e all’aristocrazia  nera, ai ladri e ai furbi, agli speculatori e ai malandrini.

Io non lo so se c’è ancora tempo e volontà per rimediare a un torto così grave subìto per così lungo tempo. Io non lo so se lo Stato possa degnamente, adesso, celebrare un funerale. So che ha il dovere di un solo gesto: un atto di giustizia riparativa per tutti coloro che sono morti per dare vita, nel solco della Resistenza, a questa Repubblica.

Giuseppe Casarrubea

 


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