di Maurizio Aversa. Nel saluto di ringraziamento per il rinnovo dell’incarico presidenziale avvenuto a seguito del conseguimento della maggioranza dei grandi elettori assegnati ai Democratici, Barack Obama ha detto alcune verità fondamentali forse non colte appieno dai commentatori. Almeno di quelli di cui sono venuto a conoscenza. In particolare, in un passaggio dove ha lodato l’unità della nazione, conseguente all’attuazione e all’evoluzione della “colonia” liberata che si è fatta nazione di tanti stati federati, egli ha sottolineato che tutto quanto in termini di impegno, di sostegno, di aiuto a costruire le scelte che hanno condotto alla vittoria in questa campagna elettorale statunitense, non deve finire. Deve continuare. Bene prendiamo questo assunto e confrontiamolo con un’altra vicenda, quella italiana, che in questi mesi e in questi giorni, si interroga su una falsa questione (politica-antipolitica) e su alcuni strumenti mutuati proprio da esperienze non della nostra cultura (primarie) e su alcuni aspetti della democrazia fondamentale nostra (costituzione, legge elettorale). Ora ciò che ha richiesto Obama, in sostanza (al di là di quali fantasie verbali e di quali neologismi si vogliano utilizzare) è che il contenuto politico, e l’organizzazione politica messa in piedi, che lui - nel discorso ha giudicato fondamentale e importantissima per il proseguio della sua esperienza alla Presidenza degli Usa, non abbia fine ma abbia continuità: insomma ha detto
ci vuole un partito organizzato che sia presente tra i cittadini, che sia dei cittadini, che scelga, sostenga e si impegni nella comune politica che stiamo attuando. Pensate un po’, ci voleva un Democratico americano, che già aveva riscoperto che il welfare (a cominciare dal diritto alla salute per tutti, passando per il diritto al lavoro) soprattutto in tempo di crisi, è la risposta più vicina alla giustizia sociale che profuma di sinistra anche se non è tutto il programma di un governo socialista o comunista.
E in Italia? Il contrario, grazie. Si, sembra proprio che qui da noi ci si arrovelli per fare il contrario del buon senso. Il contrario del riconoscimento ottenuto in ambito storico-culturale perfino dagli americani. Così ci si impegna per affossare i punti fondamentali condivisi come la Costituzione che è la nostra unità di popolo. Occorre ritrovare un orgoglio nazionale, dice Napolitano. Embè? Richiamare al rispetto non formale, richiamare la lettera e lo spirito dello Costituzione non è un sano orgoglio nazionale impregnato dei valori democratici e antifascisti? Oppure dobbiamo scimmiottare le cose da film, le cose non nostre del nazionalismo fine a se stesso? Come le fesserie attribuite a Marchionne: uso a dire parole fare azioni contrarie alle stesse precedentemente pronunciate in nome della nazionalità della Fiat? Oppure ci si ingegna nel gioco dell’”escludendum”. Si esclude di più chi vuole rappresentare i comunisti nelle istituzioni con un premio di maggioranza fittizio, o con un riconoscimento di soglia? Si esclude di più colpendo un accordo di coalizione di centrosinistra ampio o col semplice disconoscimento del diritto elementare (dalle suffragette al diritto di voto dei lavoratori e di tutti i cittadini) di ogni testa un voto, e ogni rappresentanza sia presente nelle istituzioni? Ecco, anche questa vicenda italiana passa per la stessa questione americana.
Occorre che si rigiri al contrario l’agenda. Che si metta in evidenza
il ruolo dei partiti come organizzatori di democrazia e che, messi in galera gli intrallazzatori e cancellate le distorsioni assimilate a costruzione di casta, riconducano il ruolo effettivo dei soggetti primi riconosciuti, quasi stimolati dalla costituzione nel loro agire fondamentale in mano ai cittadini (
ai lavoratori aggiungo personalmente per i partiti di sinistra), per scegliere la linea politica e i contenuti che la formano, per sostenere i programmi che si costruiscono insieme, per impegnarsi in modo vitale nella cosa pubblica e nella quotidianità. Chi pensa che questi elementi di pensiero siano “datati”, siano “antichi”, siano “superati”, evidentemente si può trovare in due condizioni: in quella di chi sa che una organizzazione politica è una cosa faticosa e che si tiene per passione e partecipazione diretta, quindi evitata ampiamente da chi è abituato a cerchie, a scegliere in pochi o da solo e quindi fastidioso e da evitare come indicazione pratica. Oppure da chi, indifferente alla vicenda politica in se, appartiene a caste vere (quelle fatte di miliardari che comprano ogni cosa, quindi anche una schiera di politici fasulli, un mazzetto di dirigenti venduti ecc) e perciò non interessato anzi contrario al tema in se e all’esistenza di questa “roba rivendicata” chiamata partiti. Ecco, in tutto ciò, il cosiddetto scontro tra politica e antipolitica è una variante inutile e trasversale. Inutile, perché
chi è “inserito” o si presenta come antipolitica, già sta facendo politica. Sta opzionando, organizzando, condividendo, dirigendo, eleggendo ecc. Trasversale, perché sia chi accusa (a mo’ d’infamia), che chi si riconosce nella antipolitica può ritrovarsi, o alcuni già sono, proprio nella condizione di appartenenza di casta vera alla partenza per cui non vale il messaggio che viene dichiarato ma proprio ciò che si è. Ecco perché, proprio in tempi di massima sfiducia in chi ha ricoperti ruoli pubblici, in concomitanza con campagne politiche e culturali (iniziate ormai da decenni berlusconiani) che additano negativamente il ruolo della politica, proprio l’esperienza attuale americana, e il buon senso della partecipazione attiva (innata nella parte più debole della società italiana) dovrebbero ricondurre a considerare positivamente il ruolo dei partiti (rinnovati e rigirati come calzini se si vuole) quali strumenti di democrazia e di difesa dei più svantaggiati.