Si dice “è come andare in bicicletta, una volta imparato non te lo dimentichi più”. E mi è capitato di scoprire che non è vero. Torni in sella dopo un po’ e le tue gambe si muovono meccanicamente, compiono atti noti, al massimo sono indolenzite dal nuovo movimento; tu non cadi, no, non hai bisogno delle rotelle ai lati della ruota posteriore come quando avevi cinque anni, eppure l’incontro con la strada è improvviso e disorientante.
Sei abituato ai ritmi lenti e a volte innervositi dei mezzi pubblici, a quelli dilatati del camminare, alle imprecazioni in macchina, con la musica troppo alta o le parole di un altro passeggero, e ritrovarsi in strada – vulnerabili, attenti, iperstimolati – ha la sensazione di uno strappo.
Leggere libri, forse, è un po’ come andare in bicicletta. Non dimentichi i modi. Eppure è sufficiente un distacco breve perché tornare a immergersi nella narrazione e abituarsi ad annullare con i propri pensieri qualsiasi rumore circostante diventi un atto più difficile, faticoso. Un rito disimparato.
In questo mese non sono andata in bicicletta. E non ho nemmeno letto romanzi, o libri. Mi sono allontanata dalla lettura con difficoltà e con difficoltà sono tornata tra le sue pagine. E per farlo ho scelto un autore che mi è familiare, la cui scrittura ha la capacità combinata di emozionarmi e incantarmi per la sua limpidità. Che ho letto più volte negli ultimi mesi e che si è conquistato in fretta un posto tra i miei nomi affezionati.
Ho puntato sul sicuro e preso tra le mani Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti: mi sono rimessa in sella alla bicicletta. Un po’ disorientata.
Lo strappo dell’incontro con la strada v’è stato anche qui; l’emotività di Cognetti è sottile ma non per questo meno intensa, anzi, e lasciarsi andare alle parole, liberarsi di restrizioni, è come rimettere in moto muscoli tendini articolazioni di cui non si ricordava l’esistenza. Sentirli cigolare e gemere nei movimenti conosciuti ma da un po’ trascurati.
Non è semplice addentrarsi tra i racconti. I racconti di per sé sono una forma tanto difficile quanto da me amata. Appaiono dei ritagli di vita. Un cassetto aperto per caso che ci racconta una storia incompleta e parziale. Sono l’emblema di quanto l’abilità dello scrittore deve superare la mera capacità di raccontare una bella storia.
Tuffarsi in una raccolta di racconti è per questo sempre un salto nel buio.
Ho iniziato con incertezza. Catturata, ma non del tutto convinta.
Ho preso poi il via al terzo racconto, La figlia del giocatore. Racconto di crescita e del potere e le possibilità della fantasia.
“Non c’è il finale.”
“Per me le cose succedono così. Ne succedono alcune e poi altre. non è che a un certo punto finiscono.”
“La letteratura è diversa. E’ la vita che non ha senso, mi capisci? La gente scrive storie per dargliene uno.”
Ho sperimentato un ampio respiro col quarto, La stagione delle piogge. Vi ho ritrovato lo stesso profumo di montagna di Il ragazzo selvatico, la stessa ricerca di un maestro, nel racconto dell’estate di un bambino in mezzo alla natura e alle difficoltà di rapporto dei propri genitori.
Nomino questi due perché forse appare inutile parlare della trama di racconti, eppure voglio fissare questi in particolare, i due che ho più amato, per poi magari tornare qui su questo post e ritrovarli: capita spesso che nei pensieri il ricordo di un racconto sbiadisca, molto più che quello di un romanzo.
Di solito rimane un’impressione generale della raccolta, e con Una cosa piccola che sta per esplodere si adagia una sensazione di scoperta e solitudine, la percezione della crescita, dei momenti significativi dell’infanzia e dell’adolescenza, la visione del mondo con gli occhi dei bambini.
Sono storie che raccontano momenti eppure non sono ferme, immobili. Non sono fotografie statiche, ma scatti dinamici: tra l’inizio e la fine di ogni racconto succede qualcosa, anche all’apparenza minimo, che cambia il modo in cui i personaggi osservano se stessi e ciò che li circonda.
Sono dei moti – la scoperta dell’infelicità di una madre, l’accettazione del corpo, la perdita e la ricerca di una figura paterna… - sono quell’attimo prima e dopo in cui una cosa piccola sta per esplodere, e magari questa cosa è davvero piccolissima piccolissima, non ha fatto rumore, solo il protagonista l’ha vista accendersi e scuotere l’aria, ma tutto ciò che era intorno a lei è comunque diverso da come era prima.
Questo è il punto di forza dei racconti, la linea invisibile che li congiunge.
Il loro punto debole, invece, è il retrogusto acerbo che si avverte nell’affondare i denti nella polpa dei personaggi. Una cosa piccola che sta per esplodere è uno dei primi lavori di Paolo Cognetti, e si percepisce.
Qualche frase d’effetto (come picchi di scrittura ricercati e spigolosi nella linearità del resto), metafore traballanti. Momenti catartici troppo simbolici nel racconto di una finestra sulla quotidianità umana, che rendono evidente la mano dello scrittore, la finzione invece che il realismo. E adolescenti sempre un po’ “ai margini”, simili tra loro, tutti colmi di solitudine e quasi sempre privi di amici, situazioni tipiche: tra l’anoressia, genitori ricchi indifferenti, padri alcolizzati, padri assenti, padri distratti…
Al contempo, però, m’è piaciuto ritrovare questo frutto immaturo, essere consapevole di aver cominciato a leggere questo autore da Il ragazzo selvatico – il lavoro di Paolo Cognetti che per ora preferisco – e tornare indietri cronologicamente nelle sue pubblicazioni: leggere poi Sofia si veste sempre di nero, e in questi giorni Una cosa piccola che sta per esplodere.
Scoprire la densità e maturità scrittoria e poi retrocedere, verso le precedenti pubblicazioni, scoprire che mancava qualcosa e sapere che è stato poi colmato.
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Paolo Cognetti
Una cosa piccola che sta per esplodere
minimum fax
158 pagine