Iniziò più di un secolo fa: Lidia Poet, ormai conosciuta come “la prima donna Avvocato”, intraprese una battaglia rimasta nella storia. Le ragioni poste a base della specifica esclusione della donna dall’esercizio di una professione intellettuale, venivano assimilate in una serie di pregiudizi quasi imbarazzanti: si sosteneva che frivolezza e vanità (tipiche del genere) non potevano essere compatibili con l’impegno nello studio, oppure che tali “eccessi” nella applicazione del lavoro, avrebbero comportato tormenti ed esaurimento nervoso, tali da provocare alienazione e sconsideratezza mentali.
Di contro, veniva dichiarato che proprio la fatica e la concentrazione cerebrale avrebbero fatto perdere la femminilità e la grazia.
Eppure, la nostra Lidia si laureò in giurisprudenza in quel 1881 segnato dal concetto casalingo della figura femminile: tuttavia, riuscì ad iscriversi nell’Albo degli Avvocati di Torino solo nel 1919. Trentotto anni di “corsi e ricorsi”, perché era proprio la istituzione che non ammetteva la presenza di una Signora tra i propri iscritti.
Oggi possono far sorridere le motivazioni poste a base della difesa avversaria (“sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorandosi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche loro malgrado potrebbero essere tratte oltre i limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare”), ma –all’epoca- il “pericolo” che una donna potesse diventare “pretore” o “giudice istruttore” –o che, addirittura, potesse “far innamorare” un Cliente o un Giudice”- era sentito come un rischio da non correre.
Per fortuna il tempo passa: l’evoluzione dei costumi ha comportato una serie di “conquiste” (che, seppur minime, sino a poco tempo erano impensate), tanto che –oggi- la donna professionista, riesce ad essere anche (!) stimata e rispettata.
Le difficoltà, tuttavia, permangono: la scelta di lavorare, per una donna, non può prescindere dalla sua natura di madre o moglie, o di figlia di genitori anziani.
Il tutto si complica quando si decide di esercitare una Professione libera
Diventa un disastro, quando si sceglie di ESSERE un Avvocato.
Non voglio farne una “lotta di classe”, ma sono evidenti gli inconvenienti in tal senso rispetto al Collega uomo: la madre/moglie/Avvocato vive la propria giornata infilandosi nelle “fessure” che le permettono di assolvere ad impegni improrogabili, inventando incastri dai quali dirigere una catena di montaggio dove si muovono le persone che (volente o nolente) da lei dipendono.
I preconcetti ed i luoghi comuni con cui la donna avvocato deve fare i conti, sono tanti: si è ancora convinti che le donne si possano solo occupare del cosiddetto “contenzioso di massa”, mentre sono ritenuti tipicamente maschili settori specificamente tecnici e più redditizi, quali il diritto societario, tributario e della tutela contro la Pubblica amministrazione. Oltre al fatto che “il peccato originale” di essere madri, le fa ritenere meno affidabili perché troppo occupate a pensare alla loro famiglia o a seguire la loro vocazione materna.
Ciò si riversa, pertanto, in ogni settore: ivi compreso quello delle Istituzioni, le quali –se non per alcune, evidenti, esigenze- non si sono mai prodigate per la salvaguardia della professione al femminile.
Eppure, una grande conquista, è arrivata dalla approvazione della Legge di Riforma Professionale (il cui “iter” sembra definitivamente concluso).
Ivi si è previsto:
Art. 28. (…) 2. I componenti del consiglio sono eletti dagli iscritti con voto segreto in base a regolamento adottato ai sensi dell’articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite. Il regolamento deve prevedere, in ossequio all’articolo 51 della Costituzione, che il riparto dei consiglieri da eleggere sia effettuato in base a un criterio che assicuri l’equilibrio tra i generi. Il genere meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo dei consiglieri eletti. La disciplina del voto di preferenza deve prevedere la possibilità di esprimere un numero maggiore di preferenze se destinate ai due generi. Il regolamento provvede a disciplinare le modalità di formazione delle liste ed i casi di sostituzione in corso di mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto previsto dal presente comma.
Art. 34 (durata e composizione del C.N.F.): 1bis 1-bis. Le elezioni per la nomina dei componenti del CNF non sono valide se non risultano rappresentati entrambi i generi.
Forza, cultura ed intelletto sono in grado abbattere ogni pregiudizio: ciò contribuirà a migliorare la condizione della donna nella professione.
La componente femminile dell’avvocatura italiana, che ormai supera il 48%, guadagna infatti meno della metà dei colleghi maschi, ma non si può disconoscere il fenomeno di una progressiva “femminilizzazione” della professione, tuttavia a fronte di una situazione economica di totale sfavore.
Sino ad oggi, le donne avvocato sono state poco rappresentate nelle sedi decisionali, dove si assumono i provvedimenti per influire su uno sviluppo in tal senso: poco coraggio (forse), poca voglia di avventurarsi in un sistema ancora troppo legato a stereotipi lontani dal mondo femminile (forse).
Ma ora la strada per una affermazione “paritaria” è meno tortuosa.
Dipende da noi.
Finalmente.
http://www.associazioneforenseemilioconte.it/