Quando guardo la campagna annerirsi nel calore dell’ultimo agosto sono girata di tre quarti perché mi sembra brutto dare le spalle alla Madonna. La Madonna sta tesa e chiara sotto il cielo e le fa da corona un arco di palloncini bianchi e azzurri. Sopra la campagna i fuochi d’artificio, una grancassa che risuona dai timpani al torace e tutte le volte che mi attraversa il corpo il corpo mi impone di piangere e piango.
Alla Madonna non importa delle mie lacrime, lo so, e infatti non è per lei che piango.
La Madonna sta in mezzo al sagrato, da una parte il sindaco e la giunta comunale, dall’altra bambini col vestito buono. Me ne vado, lasciando tutti a fare foto e video da portare in America e in Germania che somiglieranno terribilmente alle foto e ai video fatti l’anno prima. Sulla strada di casa incontro un vecchio amico di famiglia, con la pancia grossa e i capelli radi. Tiene la mano sul bastone, la sposta solo per portarsela alla bocca e levarsi una crosticina molle e giallastra dentro il labbro. Dice qualcosa che non ricordo, chiede le cose che si chiedono, e mentre parla cerca di disfarsi della crosticina che gli è rimasta attaccata alle dita. Io non è per la crosticina che provo schifo, non mi fa schifo neanche quando l’attacca al muretto. Provo schifo per il sole che gli tramonta alle spalle, che è sempre uguale e non invecchia, non fa le croste e non muore.
Non ho fatto cento metri che dal balcone mi vede un’amica di mia nonna che veniva sempre a casa nostra quand’ero piccola. Appoggiava per terra borse di plastica piene di fave, pomodori, ciliegie, poi col suo culo enorme si sedeva sulla sedia più robusta che trovava. Delle volte veniva con suo nipote, era un anno più grande di me, parlavamo di ragazze e di animali, sapeva fare il verso degli uccelli. L’amica di mia nonna è rimasta uguale, o almeno mi sembra uguale, ma io sono giù in strada e lei è seduta in balcone. Mi riconosce ma non può credere che sia cresciuta tanto, come passa il tempo. Con una mano tiene la ringhiera scrostata, con l’altra il bastone. Si fa quel che si può, dice. Ma a un certo punto non si può più niente.
Lo so, è una storia triste. Una storia senza colori, pallida come una fronte ammalata. Una storia che non so raccontare. Una sedia a rotelle che non riesco a spingere. Una scala che non riesco a salire. Una scala che mi fanno salire da seduto, due uomini che mi sollevano per le braccia e una donna che riporta i miei piedi vicino al mio corpo. Una terrazza in cui non tornerò. Un bicchiere d’acqua che trema nella mano. Un rivolo di saliva che mi cola sulla camicia. Un rivolo di saliva che mi cola a terra e quando ci passo sopra con le ruote della sedia si sporca, si stira, diventa una chiazza dura e nera. Il pranzo che non riesco a finire, e che tu mi chiedi di finire, ogni giorno, urlandomi contro o baciandomi le guance. Il pastone che mi si forma in bocca, che non riesco a trattenere, che non riesco a ingurgitare perché l’esofago non funziona più e tutte le volte che mangio, tutte le volte che bevo e qualche volta anche quando respiro, il cibo l’acqua l’aria vanno dove gli pare e io tossisco affogo annaspo. La tua voce arrabbiata quando mi sveglio e m’infurio perché sono ancora vivo. Gli scarabocchi che allungo sul calendario, tutte le mattine, per tenere il numero dei giorni, dopo che mi hai portato in bagno e mi hai vestito, dopo che ho preso la biro nera e l’ho puntata contro un altro giorno, un altro affronto di Dio. La bocca che si lascia andare come quella di un burattino, la mascella che pende come un frutto guasto e tu che mi riprendi, io che mi dispiaccio per questa esasperazione a cui ti costringo. L’abbraccio che non riesco a ricambiare quando china sul mio collo mi baci la testa.