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Però io quel giorno ero in redazione.
Dopo le stragi del '92 capitava di parlare della morte di Falcone e Borsellino e chiedere - o sentirsi chiedere - cosa si stava facendo quando la notizia era arrivata.
Io l'11 settembre ero in redazione.
C'eravamo quasi tutti, in realtà: riuniti in assemblea per votare la fiducia al nuovo direttore. Fummo io e un collega della giudiziaria a i primi ad accorgerci che qualcosa di grosso era successo: sul televisore che ci sovrastava mentre decidevamo se approfittare della pausa per andare a pranzo, Televideo proiettò una singola riga. Diceva: "un aereo si è schiantato contro una delle Torri Gemelle".
La voce si sparse in redazione in meno di un attimo e tutti i televisori si accesero sulla diretta della Cnn. Immagini surreali. Da film. "Non può essere vero" diceva qualcuno, "sembra un film". Il notiziario era chiuso, come sempre durante un'assemblea. "Forse dovremmo riaprire la rete" propose qualcuno. Ma c'era chi non era d'accordo: era un'assemblea importante, non si poteva sospendere solo per dare la notizia che un piccolo aereo (questo era quello che si sapeva in quel momento) aveva colpito un grattacielo.
Così stavamo con il naso per aria, domandandoci come fosse stato possibile che in una splendida giornata di sole come quella che si vedeva attraverso gli schermi, un pilota fosse stato così incompetente da andare a sbattere contro una torre di acciaio e vetro.
Poi accadde.
Lo vedemmo tutti: il secondo aereo che si schiantava contro la Torre Sud.
E fu il silenzio. Un silenzio che in redazione non ho più sentito. Il silenzio che segue gli eventi incredibili, le immagini che il nostro cervello si rifiuta di registrare come reali o anche solo come verosimili. Nessuno riusciva a dire niente. A fare niente.
La prima voce fu un urlo: "riaprite la rete".
E in un attimo eravamo tutti ai computer. Non c'era una sola postazione libera: tutti tempestavano furiosamente sulla tastiera, armeggiavano con i mouse cercando di cavare qualche informazione dal web. Ma Internet era paralizzato dal traffico. I miei amici a New York non rispondevano: era impossibile prendere la linea. Persino le agenzie internazionali sembravano paralizzate dal terrore: le stampanti di Reuters ed Efe non vomitavano più la solita valanga di notizie.
Eppure cercavamo dappertutto: negli archivi cartacei per trovare una scheda sul World Trade Center; un riepilogo sul primo attacco del '93 alle Torri Gemelle; un profilo dei principali attacchi terroristici. Fu allora che un collega mi si avvicinò con una cartellina azzurra. Sopra c'era scritto: "Al Qaeda". "Sono stati questi qui" mi disse, "c'hanno già provato una volta". Fino ad allora nessuno aveva neppure pensato a Bin Laden.
Lavoravamo sull'onda dell'adrenalina, tutti. Lavorammo senza sosta: nessuno voleva tornare a casa a riposare per affrontare un turno di notte che era inevitabile. Poi venen la paura. Man mano che le notizie si accavallavano: l'aereo sul Pentagono; quello precipitato in Pennsylvania. Ma anche tanti falsi allarmi, come l'autobomba al Dipartimento di Stato o l'attentato alla Sears Tower e gli attacchi su Los Angeles. Notizie date da redazioni in preda al panico che diffondevano qualunque voce arrivasse alle loro orecchie per poi smentirle dopo pochi minuti, ma che alimentavano la paura e la sensazione che qualcosa di ancora più terribile dovesse accadere.
Tornai a casa alle quattro del mattino, durante un'offensiva dell'Alleanza del Nord su Kabul. Una coincidenza che fece pensare a un attacco americano. Due giorni prima il comandante Massoud, il Leone del Panshir, era stato ucciso in un attentato. Il mio capo di allora era rimasto più colpito di quanto mi aspettassi. "Hanno ammazzato Massoud" aveva detto, "si sta preparando qualche casino vero". Nessuno immaginava quanto avesse ragione.
A casa mia dormivano tutti. Sonni che apparivano quieti.
Io mi poggiai sul bordo del letto. E piansi.
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