Ma quanto può valere la vita di un uomo?
Iniziare un post con questa domanda è come darsi e dare un pugno nello stomaco, me ne rendo conto, tanto più se la risposta è impossibile. Il mio vuole essere solo un modestissimo tentativo di riflessione aperta. In prima battuta mi verrebbe da dire che non c'è spazio per nessun mercanteggiamento, una vita vale quella vita, unica sempre e insostituibile sempre, ma la realtà si articola notoriamente in modo molto più complicato.
Se per esempio un povero cristo o un vip, ammesso che abbiano entrambi una polizza assicurativa, si spezzano una gamba o si accecano di un occhio, non è la stessa cosa, il valore attribuito agli organi cambia, in base a sofisticati calcoli e cavilli assicurativi i rimborsi saranno profondamente diversi e non mi sembra giusto, una gamba resta una gamba e un occhio un occhio, non ci metteremo certo a fare le graduatorie sociologiche del dolore.
In tempo di guerra e in situazioni "politiche" poi intervengono innumerevoli altri fattori, l'esempio, l'ammonimento, lo scambio, il valore simbolico e la vita del singolo finisce per assumere altri significati. Leggevo l'altro giorno "Memorie di guerra" con una prefazione del Generale Cadorna. Sono le Memorie che il Feld Maresciallo Kesselring, (condannato a morte nel luglio 1947, pena poi commutata in detenzione perpetua) ha pubblicato in Germania con un titolo ben più eloquente "Soldat bis zum letzten Tag" (Soldato fino all'ultimo).
Senza fare distinzione di grado e di responsabilità egli definisce come la più alta qualità del soldato il "saper soffocare, malgrado qualsiasi dubbio, la critica pregiudizievole, di modo che le unità dipendenti, vivificate dalla fiducia del capo, non possano far altro che obbedire e combattere" e tuttavia ammette "che in molti casi gli ordini dall'alto sono stati giudicati assurdi, ma perché i singoli combattenti non erano in grado di valutare la concatenazione degli avvenimenti".(1).
Per i 33 soldati tedeschi saltati per aria a Roma quel 23 marzo 1944 nell'attentato di via Rasella ad opera di una formazione partigiana, ventitré ore dopo i tedeschi fucileranno 335 uomini tra militari e civili, l'eccidio delle Fosse Ardeatine, 10 ostaggi per ogni tedesco ucciso (Kappler ne aggiunse arbitrariamente altri cinque). Lo afferma Kesselring stesso nelle sue Memorie: " l'ultimo ordine di Hitler stabilì la rappresaglia nella proporzione di 1: 10, ed incaricò della sua esecuzione il Servizio di sicurezza ";(1).
Ammesso che sia lecito affermare una cosa del genere, alla fine è andata "relativamente bene" perché inizialmente Hitler avrebbe valutato un rapporto di 1 a 50, la distruzione dell'intero quartiere e la deportazione da Roma di 1000 uomini per ogni tedesco ucciso. Nel suo libro, Kesselring, le formazioni antifasciste ed i partigiani li chiama "bande"e una sua direttiva del 17 giugno 1944 recita: "La lotta contro le bande dovrà pertanto venir condotta con tutti i mezzi disponibili e con la maggior asprezza. Difenderò qualsiasi comandante che, nella scelta e nel rigore dei mezzi impiegati, abbia oltrepassato la misura moderata da noi considerata normale".(1)
E' risaputo che l'aggettivo "normale" si presta ad ogni ambiguità, figuriamoci se poi si tratta di stabilire quale sia la misura moderata considerata normale dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Il soldato israeliano Gilad Shalit di 25 anni, dopo oltre cinque anni da prigioniero di Hamas nella Striscia di Gaza, ieri è tornato, finalmente libero, a casa. Per due anni, lui miope, è rimasto senza occhiali, non ha mai visto la luce del sole, non è mai stato visitato dalla Croce Rossa. Per la libertà di Shalit il governo israeliano rilascerà complessivamente 1027 palestinesi, fra loro terroristi responsabili di attentati, linciaggi, massacri. La stampa è piena di articoli, tanti pareri autorevoli, li ho letti tutti, ma mi rimane quella domanda iniziale e la consapevolezza di un'impossibile risposta.
(1) Albert Kesselring: Memorie di Guerra Garzanti 1954