E’ una moda tutta italiana: la colpa non è mai di chi viene indagato ma di chi inizia un’indagine. A qualsiasi livello lo sport preferito dagli italiani è la delegittimazione del potere giurisdizionale. Ma ad essere in crisi è il concetto stesso di giustizia.C’è una pericolosissima moda che sta affermandosi a tutti i livelli nel dibattito pubblico italiano. La colpa è certo dei mass media, ma anche di una opinione pubblica troppo propensa a non voler lanciare la prima pietra, forse perché consapevole che nessuno è senza peccato.
Le intercettazioni di Napolitano, i processi di Berlusconi, persino la giustizia sportiva che mette Conte sul banco degli imputati per un caso di omessa denuncia: in tutti questi casi, la colpa non sia mai attribuita a chi viene sospettato, giacché nessuno è colpevole fino a condanna definitiva. In Italia si simpatizza più per il presunto colpevole che per i “paladini della giustizia”, ai quali si rimprovera troppo spesso di non vestire la stessa maglia di chi è indagato(si pensi alle famose toghe rosse), come se l’imparzialità non debba esistere.
Emblematica la vicenda che ha visto protagonista l’ultimo degli intoccabili, il comunista di cartone Giorgio Napolitano, Re Giorgio per gli amici. Il presidente della repubblica, intercettato nell’ambito dell’ormai celebre accordo stato-mafia che ha lasciato cadere sul campo i giudici Falcone e Borsellino, è comunque intangibile. Le sue comunicazioni, a differenza di quelle di chicchessia, devono essere secretate. Se fossimo berlusconiani (ma non lo siamo!) chiederemmo lumi sulle differenze di trattamento che impongono un simile trattamento a favore del capo dell’unità nazionale, mentre permettono la pubblica gogna per chi ha il vizietto di portarsi le “nipotine” a letto, più che al parco.
La logica è perversa, se Antonio Di Pietro indaga su “Tangentopoli” e fa cadere un sistema di tangenti, non viene considerato un eroe ma un guastafeste, uno che ha tirato la chiave inglese tra gli ingranaggi di una macchina che funzionava pur producendo malaffare. Mi ricorda vagamente quella provocazione con cui, molti direttori tecnici delle squadre di ciclismo, avanzarono una richiesta singolare qualche anno fa: visto che i ciclisti si dopano, legittimiamo il doping. Come dire, visto che quotidianamente abbiamo liti con i vicini di condominio, legittimiamone l’omicidio: un vero e pericoloso nonsenso. Un po’ come consegnare la Sicilia alla mafia, perché instauri la sua peculiare forma di governo.
Ricordo un signore palermitano con i baffetti, faceva il magistrato ed era ospite ad una trasmissione serale di un altro celebre baffo (Maurizio Costanzo, per intenderci). Dalla platea si alzò un signore tracagnotto con gli occhiali che attaccò quel magistrato con veemenza ed argomenti farneticanti, additandolo di voler demolire la “migliore classe dirigente della DC” in Sicilia. Risultato: quel magistrato è su tanti murales, è un emblema dell’antimafia ed è un martire della lotta alla malavita organizzata. Quel signore tracagnotto sta prendendosi una laurea in scienze politiche. Studia a Regina Coeli, carcere romano in cui sconta una pena a sette anni. Tirate le vostre somme.
La stessa vicenda che ha visto esiliare Antonio Ingroia in Guatemala suscita perplessità: siamo alle solite, tocchi un nervo scoperto e ti mandano dall’altra parte del mondo ad occuparti di narcotraffico. Un po’ come se mandassimo l’uomo Del Monte non più a cercare la frutta migliore, ma a raddrizzare banane in Mozambico. Uomini come Ingroia servono a questo paese, e al diavolo il protagonismo dei magistrati: se un giudice fa qualcosa per rendere questo paese migliore di quanto sia, è giusto che se ne parli.
A ben considerare, anche i fatti più lievi rispondono alla stessa logica: Antonio Conte, allenatore della Juventus campione d’Italia, viene indagato per una storia di partite truccate. Avrebbe volentieri patteggiato per poter beneficiare di una pena lieve (tre mesi e qualche migliaio di euro di multa) ma il procuratore della giustizia sportiva non è d’accordo, vuole vederci chiaro ed andare fino in fondo. Scatta la contromossa mediatica, persino Andrea Agnelli attacca la giustizia sportiva parlando di complotto (ovviamente) e di ingiustizia, di logica contraria alla certezza del diritto e di dittatura: in Italia non puoi essere colpevole, se metti sul piatto fama e denari. E ora, i tifosi della Juventus, minacciano scioperi e manifestazioni di piazza. Se ci fosse la stessa coesione per gli argomenti che davvero incidono sul tessuto sociale, oggi vivremmo meglio della Finlandia. E invece no, toccano il pallone e siamo tutti pronti ad incazzarci, ci tolgono il pane di bocca e facciamo i link su Facebook: il “Grande Fratello” ha proprio vinto.
Il messaggio che rischia di passare è pesantissimo, da scongiurare a tutti i costi, perché consiste in una sorta di presupposto di intangibilità di certi individui, siano essi appartenenti all’ordinamento statale, sportivo etc.
La legge, diceva qualcuno un tempo, è uguale per tutti. A tutela e custodia di questo preziosissimo patrimonio di eguaglianza, venne costituito un potere terzo, super partes si diceva un tempo, che dovrebbe garantire l’amministrazione della giustizia o se preferite il rispetto della legge. Legge che in Italia promana da un’assemblea elettiva, lasciando al corpo elettorale l’illusione che la democrazia rappresentativa sia un esercizio di sovranità popolare in cui non intervengano altre variabili: in altre parole, i politici sono bravi buoni e belli. Ma se non ci si fida di chi quella legge deve farla rispettare, se quotidianamente se ne denigra l’operato, è logico che il sistema sarà presto al disordine.
Non è attaccando quotidianamente il potere giudiziario, con argomenti di bassissimo lignaggio, che sarà possibile riaffermare i precetti fondamentali che abbiamo ereditato dalla rivoluzione culturale illuminista. La logica dell’intoccabile e del legibus solutus non può portarci lontano.
Paghi chi sbaglia, indipendentemente dal cognome che porta e dal ruolo che ricopre. Perché dinanzi alla bilancia della giustizia dovremmo avere tutti lo stesso peso, sia i Napolitano che i Conte, passando per i sessanta milioni di Signor Rossi che popolano la nostra (un tempo) gloriosa nazione.