Siamo nel 1930, in Inghilterra.
E' ancora lontana la "Golden Age" della Sci-Fi e lungi a venire l'era dell'esplorazione spaziale, della scoperta della catena del DNA da parte di Watson e Crick e del problema del sovraffollamento urbano, dell'effetto Serra e della crisi energetica.
Un maturo psicologo e filosofo inglese di 44 anni, che risponde al nome di Olaf Stapledon, scrive il suo primo romanzo di narrativa a tema ucronico-fantastico intitolato "Infinito" (Last and First Men in inglese) e da allora il suo nome verrà associato a importanti autori di narrativa fantastica del calibro di H.G.Wells e Jules Verne.
"Infinito" tratta della storia e dell'evoluzione dell'umanità attraverso cinque miliardi di anni a partire dall'anno in cui lo scrittore sta scrivendo. Lo stesso scrittore è in contatto con una "mente illuminata" proveniente dal futuro, che gli suggerisce cosa scrivere (questa vicenda non vi ricorda forse un certo "Mr Dick"?)
Qual'è il pregio di un'opera come "Infinito"? E' necessaria una premessa.
Dopo la "corsa allo spazio" di U.S.A. e U.R.S.S. ,conclusasi in una sostanziale parità, il mondo si rende conto alla luce dei risultati ottenuti che la colonizzazione spaziale è ben lungi a venire. Il Positivismo filosofico che impregna le pagine di molti libri di fantascienza dell'epoca, in cui una tecnologia all'avanguardia e al servizio dell'uomo consente di raggiungere Utopie dal sapore proibito, comincia a perdere mordente.
Subentra la fantascienza "distopica", di Dickiana memoria, in cui la tecnologia non è il frutto di un consesso di menti illuminate, ma l'ultimo mostro partorito da "l'anomalia umana" capace di stravolgere l'uomo stesso e le fondamenta della realtà in cui vive (incluso il Tempo e lo Spazio).
Da allora il lettore di fantascienza subisce un bombardamento continuo di "paradossi" che ribadiscono il sostanziale fallimento del progresso sociale, politico e intellettuale a fronte di meccaniche grette e meschine quali l'interesse economico e la difesa di uno "status quo" attraverso ogni mezzo possibile.
Su queste pagine amare orde aliene e zombieformi minacciano le società civili e le travolgono, aberrazioni genetiche minano i principi della morale e dell'etica, rincorrendo il mito del Frankenstein e altrettanti aborti scientifici distruggono gli sforzi umani volti alla pace e all'armonia mondiale. L'intento di queste opere talvolta sfiora il profetico e, in questo senso, spera di far riflettere il lettore.
Anche in Stapledon è presente la distopia, ma nasce da premesse completamente differenti.
"L'uomo di Stapledon" non è frutto di una società post-industriale votata al consumo sfrenato, ma è figlio di un "Intellighenzia" generazionale che porta avanti determinate scelte, per il bene della comunità tutta, intesa come "comunità umana", seguendo quella tradizione inaugurata dalla "Scuola di Francoforte" e dalla comunità scientifica che si era andata creando intorno ad Einstein.
Queste "classi intellettuali" sono costrette a vedere il mondo intorno a loro cambiare rapidamente, senza che possano intervenire nel processo di trasformazione, ma possono altresì presagire l'esigenza del cambiamento e portare avanti le loro scelte (spesso drastiche ed eclatanti) nel nome dello Spirito Umano, di quella scintilla di intelligenza che si riaccende nell'istante in cui l'uomo sta per precipitare nel baratro della rovina oppure assurgere all'immortalità e alla perfezione.
In cinque miliardi di anni società fondate sul culto della scienza, dell'oscurantismo oppure della più profonda barbarie si susseguono a velocità impressionante, ma quella classe di "menti elette" continua a sopravvivere e a ribadire un semplice assunto: "Io sono l'Uomo: il semplice fatto di esistere, consiste già in una vittoria".
Citando l'autore: "Qualche lettore, vedendo nel libro un tentativo profetico, potrebbe definirlo assurdamente pessimista. Ma non si tratta, lo ripeto, di una profezia, bensì di un mito, o di uno studio di un mito. Tutti quanti desideriamo che la nostra attuale civiltà progredisca costantemente verso una forma di Utopia. Ci ripugna il pensiero che possa corrompersi e distruggersi e che tutto il suo tesoro spirituale vada irrevocabilmente perduto. Tuttavia si tratta di un pensiero che dobbiamo affrontare quantomeno come possibilità e che "la tragedia" ha senza dubbio il suo posto in ogni mito che si rispetti".
Il mondo si Stapledon soffre cicliche crisi di risorse, vede l'avvento di elìte intellettuali fanatico-religiose o fanatico-illuminate. Predice contrapposizioni di natura sociale e politica che dagli anni trenta al duemila si sono puntualmente verificate e che probabilmente accadranno, ma non sono l'intento della sua disamina.
Tutto ciò che accade all'uomo è già dentro di lui e ribadisce lo stesso ennesimo concetto: "non siamo che uomini. Niente di più, niente di meno."
Questa è la riflessione che Stapledon lascia ai suoi lettori: una visione densa di umanesimo.
Una riflessione romantica, forse, ma senz'altro attuale.