di Davide Borsani
Il processo di polarizzazione del sistema politico americano post-crisi finanziaria è giunto al suo compimento. L’esito delle elezioni di metà mandato è stato fallimentare su più fronti per il Partito Democratico di Obama, che ha perso la maggioranza al Senato dissipando un vantaggio di otto seggi che, negli ultimi quattro anni, gli aveva permesso di controbilanciare il controllo da parte dei Repubblicani della House of Representatives. Ad oggi la Camera Alta è tornata, per la prima volta dal 2006, nelle mani del Grand Old Party (GOP), che, in attesa del ballottaggio in Louisiana, può vantare un vantaggio di sette seggi, 52 contro 45, uno in più di quelli necessari per ottenere la maggioranza assoluta. Anche alla Camera Bassa i Repubblicani hanno stravinto. Non solo ne hanno ribadito il controllo, ma hanno persino incrementato il gap che li separa dai Democratici. Se, fino all’altro ieri, la differenza era pari a 35 seggi, oggi è quasi raddoppiata. Mitch McConnell, nuovo leader della maggioranza al Senato, ha decantato il trionfo del GOP affermando che «inizia una nuova gara» a Washington «per cambiare direzione al Paese, per restaurare la speranza, l’ottimismo e la fiducia».
Risultati alla Camera dei Rappresentanti – Fonte e dati The Washington Post Risultati al Senato – Fonte e dati The Washington PostIl risultato delle midterm è per certi versi sorprendente. Le elezioni presidenziali del 2012 si erano giocate pressoché interamente sul terreno dell’economia. Obama, sull’onda lunga dell’immaginario del cambiamento, era riuscito ad ottenere la riconferma alla Casa Bianca grazie a quella parte dell’elettorato non bianco, rappresentato in prevalenza dagli afro-americani e dagli ispanici, che ancora aveva creduto alla retorica del “Yes, we can” e alle promesse di una maggiore uguaglianza sociale. Esito sorprendente, quindi, perché gli Stati Uniti nel corso dell’ultimo biennio hanno dimostrato di essere un Paese economicamente dinamico non solo a parole. Gli attuali dati macroeconomici mostrano che il prodotto interno lordo sta crescendo ad un ottimo ritmo tra il 3 e il 4%, l’inflazione si attesta fisiologicamente tra l’1,5 e il 2% e il tasso di disoccupazione è tornato al di sotto della soglia psicologica del 6%. Ma non è tutto oro ciò che luccica. La ripresa è stata dovuta più che alla Obamanomics alla politica di stimolo monetario, il Quantitative Easing, della Federal Reserve che, da un lato, ha permesso a Wall Street di rifiatare e riguadagnare fiducia, ma, dall’altro, non è riuscita a ridurre quella (sempre più) ampia forbice di disuguaglianza socio-economica tra le classi ricche e quelle meno abbienti che attualmente costituisce la problematica maggiore che mina la fiducia nei confronti di Obama di una rilevante parte della base del partito democratico. Il Presidente, in altre parole, nel corso dei suoi due mandati non è stato in grado di mantenere quanto promesso nelle campagne elettorali. Le sue indecisioni e il suo immobilismo, anche a causa dell’ostruzionismo repubblicano alla Camera Bassa, sono state percepite dall’elettorato come la “prova del nove” di una carenza di leadership tanto in politica interna quanto in politica estera.
Ciononostante i Repubblicani, pur usciti rafforzati dalle midterm, non dovrebbero cantare vittoria con troppa fretta. Il successo del GOP si è materializzato più per demeriti altrui che per meriti propri. La chiave per interpretare le elezioni di metà mandato è, infatti, la disaffezione e la sfiducia che i cittadini americani, in particolare i votanti democratici, hanno mostrato per i propri rappresentanti. I Repubblicani, più che come partito di governo, hanno trovato nelle midterm nuova legittimazione come partito di opposizione. McConnell ha dichiarato di non aspettarsi «che il Presidente si svegli e veda il mondo in maniera diversa. Lui sa che neanche io lo farei. Ma abbiamo l’obbligo di lavorare assieme sulle questioni dove possiamo trovare un accordo. Non è perché abbiamo un sistema con due partiti che ci dobbiamo trovare in una situazione di conflitto perpetuo». In realtà, la definitiva polarizzazione del sistema profila all’orizzonte un pressoché naturale stallo politico. Uno stallo, questo, dove il check and balance statunitense porterà prevedibilmente il potere legislativo in mano ai Repubblicani ad infrangersi sul muro del veto presidenziale di Obama. Un annullamento reciproco da cui l’unica ad uscirne penalizzata sarebbe, come ovvio, la nazione. Lo shutdown del 2013 potrebbe essere stato nient’altro che una semplice anticipazione.
Non basterà, però, al GOP una policy di attrito nei confronti di Obama per tornare alla Casa Bianca tra due anni. La campagna elettorale dei Democratici per le midterm ha chiarito, se ce ne fosse stato ulteriore bisogno, che i membri del partito tendono a differenziarsi dal Presidente, consapevoli che un’eccessiva vicinanza porta oggi più incognite che benefici. Chiara dimostrazione è stato il comizio di Obama nello stato del Connecticut, dove si era recato per sostenere il governatore Dannel Malloy, durante il quale è stato interrotto più volte dal pubblico che gli ha contestato l’inazione su più fronti in politica interna. Alle elezioni 2016 l’attuale Presidente non potrà ripresentarsi e il maggior problema per i Democratici in buona parte svanirà, soprattutto se l’establishment sarà in grado di candidare un uomo (o una donna) forte che già in passato ha avuto modo di divergere con Obama. Il nome caldo sulla lista è, com’è noto, quello dell’ex Segretario di Stato, Hillary Clinton.
Nel 2016, viceversa, ai Repubblicani si ripresenterebbe lo stesso dilemma del 2012, quando Romney corse per la Casa Bianca in quanto ritenuto essere il candidato più spendibile, ma non certo ottimale, tra quelli presentatisi alle primarie. La base dell’elettorato statunitense è chiaramente cambiata: da una popolazione bianca dominante, cui il GOP si è rivolto soprattutto negli ultimi cinquant’anni, gli alti tassi di crescita degli afro-americani e degli ispanici con diritto di voto hanno modificato la composizione etnico-culturale degli Stati Uniti. I Repubblicani, divisi al loro interno tra fazioni estremiste e più moderate, non sono, né sembrano per ora in grado, di intercettare il voto di tali segmenti che non casualmente avevano fatto la differenza nel novembre 2012 e che a queste midterm, al contrario, hanno abbandonato i Democratici.
L’establishment del GOP farebbe quindi bene ad ascoltare il monito del giovane Senatore uscente del Kentucky, ufficiosamente intenzionato a correre per la leadership del partito, Rand Paul, che pochi giorni fa ha evidenziato che «il nostro brand è compromesso. Abbiamo un muro, o una barriera, che ci divide dai votanti afro-americani. Dobbiamo andare oltre questa percezione» per avere ancora una volta un Repubblicano alla Casa Bianca.
* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Photo credits: Reuters
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