Magazine Diario personale
Niquero-Manzanillo-Bayamo-Manzanillo-Bayamo-Habana-Manzanillo-Niquero-Manzanillo-
Bayamo…
Quel mese di agosto in cui rimasi in Italia in “vacanza” dovetti fare un giro al Consolato di Cuba
a Milano per prorogare il mio permesso di viaggio; cioè, siccome ero residente a Cuba mi avevano
gentilmente concesso 30 giorni per stare in Italia e se intendevo prolungare il soggiorno dovevo
prorogare il permesso, dietro pagamento di 57 mila lire per ogni mese in più. In altre parole, per
qualche oscuro motivo dovevo pagare al governo cubano un pedaggio per stare a casa mia nel mio
paese. Mi rassegnai a questo fatto, tanto non c’era alternativa. Mi consolai del fatto che almeno
sarei riuscito a fare tutto in una giornata prendendo un treno di solito abbastanza puntuale, mentre
per fare la stessa cosa a Cuba avrei dovuto alzarmi alle 4 del mattino e probabilmente viaggiare su
un camion.
Al Consolato c’era il solito genere di clientela: ragazzi italiani che invitavano le fidanzate
cubane, ragazze cubane che rinnovavano il passaporto, altri cubani che chiedevano il permesso di
poter tornare temporaneamente nel loro paese per fare visita ai familiari dopo essere stati privati di
tale diritto per avere infranto le regole dell’emigrazione. Io credo di essere stato l’unico essere
umano che, invece, era lì per una richiesta completamente diversa e forse mai avanzata prima d’ora.
E infatti, dopo avere consegnato il mio passaporto, la segretaria di turno si recò nella stanza
adiacente e quando tornò da me disse:
- Prego, passa da questa parte: il Console ti vuole ricevere.
Il Console di Cuba a Milano vuole ricevere me? E perché mai, pensai.
- Buongiorno, Alessandro, come stai? - disse come se mi conoscesse da tempo. Si alzò e mi
strinse la mano.
- Bene grazie.
Cosa significa tutta questa confidenza? Avevo già visto alcune volte il Console in fotografia e
non mi era mai stato simpatico; e ora, vedendolo di persona, ebbi un’ulteriore conferma della mia
sensazione. Era un bianco di statura piuttosto alta e corporatura robusta, dallo sguardo severo che
mal si accompagnava col sorriso forzato, usato probabilmente per fingere una cordialità che non
possedeva.
- Così tu vivi a Cuba, Alessandro?
- Già.
- E sei sposato?
- Sì, con una cubana.
- E che cosa fai a Cuba? Lavori?
- Sì, lavoro al Centro di Calcolo di Niquero. - (in realtà non era vero, ma non era mica così pazzo
da andargli a raccontare tutta la mia storia!)
- Ah, interessante. E come va? Ti trovi bene?
- Sì, abbastanza bene.
- Quindi adesso sei venuto qui in vacanza...
- Eh sì, mi fermo un mese e mezzo, poi torno là - (e non gli andavo certo a dire che in realtà
avevamo già deciso di emigrare e venire a stabilirci qui in Italia!)
- Va bene, Alessandro - disse sedendosi per firmare la proroga sul mio passaporto - Fai buon
viaggio!
- Grazie. - dissi e me ne andai.
Non so se lui si avesse creduto alle mie risposte e pensai comunque che in realtà sapesse di me
più di quanto mi facesse credere. Ma l’importante era avere ottenuto la proroga del soggiorno.
I quarantacinque giorni in Italia trascorsero tranquilli e sereni. Riuscii anche a lavorare per
qualche settimana e a guadagnare un po’ di soldi. Una sera uscii con degli amici e andai a vedere
uno straordinario concerto di “John Lurie and The Lounge Lizards”, preceduto da Vinicio
Capossela: due fuoriclasse in un colpo solo e al prezzo di uno. Mica male.
L’unico turbamento fu quello di farmi mandare da Cuba via fax la fotocopia del passaporto di
Maribel: me l’ero dimenticata e serviva per preparare i documenti per farla venire in Italia. Ci
riuscii solo dopo tre giornate di tentativi: il primo giorno il fax del Museo di Niquero dove lei si era
recata non funzionava perché c’era un apagón. Ci demmo appuntamento qualche giorno dopo, ma
dopo diverse chiamate fatte da me non riuscivamo a trasmettere nulla: prima il fax non partiva, poi
la linea cadeva. Riprovammo alcuni giorni dopo, questa volta però stabilimmo che doveva essere lei
a chiamare (a carico del destinatario, ovviamente, perché da Cuba non era possibile fare
diversamente): ci vollero ben sei chiamate perché cadeva sempre la comunicazione, ma alla fine
riuscii ad ottenere dei fogli leggibili, a parte la fotografia che era completamente nera... Tutto
questo lavoro mi venne fatturato dall’azienda telefonica per la “modica” cifra di 400.000 lire, Iva
inclusa. Praticamente mi sarebbe costato meno e avrebbe fatto più in fretta un corriere espresso
internazionale... se solo i corrieri espressi internazionali sapessero dove si trova Niquero.
Alla fine di agosto ero nuovamente a Cuba. C’erano ulteriori formalità da sbrigare prima del
nostro viaggio per l’Italia che avevamo pianificato per novembre. Mancavano quindi ancora tre
mesi circa e sembravano abbondanti, ma non lo erano affatto, perché bastava un piccolo intoppo per
farci perdere una settimana in spostamenti non preventivati tra Niquero, Manzanillo, Bayamo e
anche L’Avana.
A Manzanillo, la cittadina più importante nel raggio di sessanta chilometri, c’era l’”Ufficio
Stranieri e Immigrazione”. Anche a Niquero c’era l’”Ufficio Stranieri e Immigrazione” ma di fatto
non serviva a niente dato che di stranieri residenti non ce n’erano molti, così era sempre chiuso;
solo saltuariamente mandavano da Manzanillo un agente di polizia a presidiare l’ufficio, ma non si
poteva sbrigare nessun tipo di pratica. Per queste cose bisognava andare almeno fino a Manzanillo e
a volte nemmeno lì avevano l’autorità per certe cose, così in quei casi occorreva andare sessanta
chilometri oltre, fino a Bayamo, il capoluogo della provincia Granma.
L’attività di sbrigare pratiche burocratiche sarebbe molto remunerativa, se qualcuno decidesse di
pagarti per questo. Invece di solito il denaro io lo perdevo in marche da bollo e biglietti
dell’autobus, anzi del camion, dato che di pullman tra Niquero e Manzanillo non ce n’era nemmeno
l’ombra e quindi dovevamo prendere un passaggio con los amarillos, quegli agenti del traffico
vestiti con la caratteristica uniforme di colore giallo ocra. Questi sostavano in alcuni punti strategici
e fermavano i mezzi statali (di solito camion, appunto) e vi facevano salire un certo numero di
persone che erano in coda da ore: era un modo come un altro per surrogare la mancanza di mezzi di
trasporto pubblici. Solo che ogni volta che salivo sul cassone di un camion mi veniva un po’ di
angoscia al pensare cosa sarebbe successo, in caso di incidente, a tutti quelli che eravamo lì sopra:
avrei voluto essere credente, per poter recitare una preghiera ogni volta. Un po’ di spirito
d’avventura ci vuole, è vero, ma vorresti anche un po’ di tempo per prepararti psicologicamente.
Insomma, puoi anche decidere di andare in cima all’Everest senza bombole d’ossigeno, oppure di
attraversare il circolo polare artico a piedi, ci puoi anche riuscire e scopri anche che ti è piaciuto un
sacco, se ti sei preparato prima. Ma quando sei alla fermata dell’autobus e aspetti un veicolo con
una cabina, con dei sedili su cui sederti comodamente all’ombra e dei finestrini dai quali entra una
brezza tropicale, ma comunque rinfrescante, e arriva invece un camion sul quale viaggerai in piedi
per due ore, sotto il sole tropicale d’agosto, respirando polvere e monossido di carbonio, ti viene
voglia di piangere.
Perdevo parecchi soldi in burocrazia, ma non solo: perdevo anche molto tempo e salute, se si
considera lo stress causato da snervanti attese e informazioni incomplete, errate o mendaci che ci
venivano date certe volte. Come quella volta, alcuni mesi addietro…
Dovemmo andare a Manzanillo per presentare la mia richiesta del permesso di uscita per
andare in vacanza in Italia. Naturalmente, quando qualche giorno prima avevamo telefonato per
sapere cosa serviva, avevano trascurato un sottile dettaglio e cioè che dovevo portare due foto
tessera. Tutto sommato meglio così: era più facile (relativamente!) trovare un fotografo a
Manzanillo piuttosto che a Niquero.
Camminavamo, io e Maribel, per le strade della città alla ricerca di un fotografo e non fu
difficile trovare dopo pochi isolati un negozio di quelli statali che fornivano, in dollari, la
possibilità di fare delle foto tessera immediate, oltre a vendere e sviluppare i rullini. L’aspetto
esteriore dei negozi che lavoravano con la valuta straniera si notvaa subito per la particolare cura
della vetrina, corredata di scritte luminose e varie pubblicità di note marche di fama mondiale. E
quando vi si entrava anche l’impatto interiore non era da meno: scaffali e vetrinette di tipo
moderno esponevano prodotti che non si vendevano da nessun’altra parte. Tutto questo dava al
potenziale cliente un’impressione rassicurante sul fatto che la qualità e l’efficienza del servizio non
avrebbero tardato a farsi sentire. Peccato, però, che (come spesso accadeva) ci fosse sempre una
persona sbagliata nel posto giusto a capovolgere il senso delle cose. Entrammo quindi nel negozio.
C’era un cliente che aveva appena terminato e stava uscendo. Dall’altra parte del banco stava un
commesso, seduto, sistemando nella cassa i soldi che gli aveva dato il cliente. Io attesi il mio turno,
cioè intendo dire che attesi che lui sollevasse gli occhi per guardarmi in faccia e mi chiedesse cosa
desideravo. Invece il tizio continuava tranquillamente a farsi gli affari suoi e a chiacchierare con
un altro nullafacente seduto al suo lato. Così dovetti “disturbare” il loro lavoro per farmi
ascoltare:
- Scusi! Senta! Fate le foto tessera? – dissi.
Il tizio alzò lo sguardo da idiota, come se fosse stupito che un cliente fosse entrato nel negozio.
- Sì. – rispose laconicamente. Poi si voltò verso l’amico e continuò a parlare con lui.
- E quanto costano? – (dovevo tirargli fuori le parole di bocca?)
- Un dollaro l’una.
- Quanto tempo ci vuole? – domandai, per sapere se nel frattempo potevamo andare a
mangiare un panino e bere una birra.
- Due giorni.
- Due giorni?!?! Ma non sono a sviluppo istantaneo?!? – dissi sbigottito.
- No, le facciamo adesso, poi venga a ritirarle dopodomani. – disse con estrema naturalezza.
Mi girai verso Maribel irritato e uscimmo da quel luogo inutile.
- Due giorni! – ripetevo tra me – Figurati dove trovo un altro posto che faccia le foto in meno
di due giorni!
Sul marciapiedi appena fuori dal negozio trovammo il cliente che poco prima avevamo visto
all’interno e che aveva sentito i nostri dialoghi.
- Guardi, questi tipi qui sono impossibili! – disse quasi sottovoce, per non farsi sentire – Non
servono a niente! Lei cosa deve fare? – mi chiese.
- Delle foto tessera.
Pensò un momento, poi mi disse, sempre a mezza voce, come se mi stesse confidando un grande
segreto e temesse di essere ascoltato da qualcuno:
- Qui, dietro questa via, c’è un fotografo privato. Non costa molto e lavora bene. Provi da
lui!
- Va bene! Grazie!
Andammo nella direzione da lui indicata e trovammo, al piano terreno di una casa coi muri
scrostati, la sede di un fotografo privato.
- Buongiorno – dissi – Abita qui il fotografo?
- Sì sono io – rispose il tizio che ci venne incontro – Cosa desidera? – disse con tono
cordiale.
- Devo fare delle foto tessera, però mi servono entro stamattina.
- Sì, non c’è problema. Però mi ci vuole una mezz’ora, quarantacinque minuti – disse
rammaricato, come per scusarsi del fatto che non poteva fare più veloce.
- Va bene, va benissimo! – dissi sorpreso.
Finalmente avevamo trovato il tipo giusto. Lo studio fotografico era ricavato nell’abitazione, o
meglio, era l’abitazione stessa che serviva da sala di posa. Nel salotto, infatti, una parete (scrostata
come quella all’esterno della casa) era usata come fondale; uno sgabello veniva usato per far
accomodare i soggetti e su un tavolo c’erano la macchina fotografica, il flash e altri accessori.
Intanto lui stava preparando la macchina. Poi andò nella stanza adiacente e poco dopo tornò:
- Ecco la giacca. Dovrebbe essere della sua misura. – disse porgendomi l’indumento.
La giacca? Rimasi alquanto stupito. Non gliela avevo mica chiesta.
- No, non c’è bisogno. – dissi, rifiutandola gentilmente. (Odio le foto formali.)
- No, non si possono fare le foto senza giacca e senza cravatta! – mi ammonì – Gliele
rifiuterebbero!
Pure la cravatta?!?! Roba da pazzi! In un paese dove non c’è un solo abitante maschio che
indossi la giacca e la cravatta oltre il giorno del suo matrimonio, dove nei luoghi di lavoro, nei
luoghi di culto e nelle feste anche molto importanti il massimo dell’eleganza è indossare un
camiciotto sopra i pantaloni, dove anche i ministri della repubblica compaiono in pubblico con
abbigliamento informale, mi fanno fare la foto tessera con giacca e cravatta? Ma sarei
irriconoscibile!
Per non urtare troppo la gentilezza del fotografo mi rassegnai; presi la cravatta e me la annodai
al collo (meno male che quel giorno non indossavo la T-shirt…), poi presi anche la giacca, che era
di due taglie più piccola della mia, e la indossai.
- Venga da questa parte. C’è lo specchio. – mi disse.
Mi guardai e, a parte le maniche alle quali mancavano almeno cinque centimetri, devo dire che
non ero così male come pensavo.
Mi fece tre foto, dopodiché uscimmo a fare un giro. Quando tornammo le foto erano pronte:
pagammo 15 pesos, ringraziai calorosamente il fotografo che ci salutò felice di averci aiutato e
tornammo all’Ufficio Stranieri per consegnarle.
A Manzanillo ci recammo nuovamente qualche tempo dopo, per presentare la mia richiesta di
rinuncia alla residenza. Ci eravamo dovuti alzare, come al solito, molto presto, intorno alle cinque,
per avere qualche probabilità di trovare un mezzo di trasporto. Ci incamminammo a piedi verso la
terminal degli autobus di Niquero; era ancora buio e per la strada principale non c’era quasi
nessuno, esattamente come la sera dopo le nove nei giorni in cui in TV c’è la novela. Anche alla
terminal non c’era nessuno, solo un’impiegata con il compito di distribuire dei bigliettini numerati,
per evitare che i viaggiatori creassero dei tafferugli nel momento in cui fosse arrivato un mezzo di
trasporto. A noi diede il numero uno. Non passò molto tempo e arrivò altra gente. Dopo nemmeno
un’ora eravamo già una ventina di persone, ma io e Maribel non avevamo di che preoccuparci, con
il numero uno in mano. Così stavamo tranquillamente seduti sulle poltroncine. Anche gli altri,
ognuno col proprio numero, stavano tranquillamente seduti poiché non c’era motivo di stare in piedi
a fare la fila. Fantastico, pensai, finalmente non devo litigare affinché i soliti furbi non mi passino
davanti e non devo nemmeno farmi comprimere come una sardina tra queste due grassone con i
pantaloni di lycra sedute qui dietro. Ma quando da una porticina comparve un tizio dicendo “Per
Manzanillo da questa parte!” tutti si alzarono di corsa e si precipitarono verso di lui gridando
“Permesso! Permesso!”, “Compañera, non spinga!”, “Senta, io ero prima di lei!”. Anche Maribel,
d’istinto, si alzò e corse verso la folla:
- Dài, sbrigati! - mi disse.
- Ma scusa, che fretta c’è? Abbiamo i bigliettini numerati!
Ma ormai capii che per riuscire a varcare la soglia della porticina dovevo anche questa volta
farmi comprimere tra le due grassone con la lycra.
- Scusi, lei che numero ha? - chiesi ad una signora che spingeva più degli altri.
- Ventitré.
- E allora perché non si sposta e non lascia passare gli altri?
A colpi di “Permesso!” riuscii ad arrivare alla porta, dove un’altra donna ci impediva il
passaggio:
- Permesso! Scusi, dobbiamo passare! - le dissi.
- Sì, ma io ho il numero sei! - rispose lei con tono deciso.
- Embé? Io ho il numero uno
Rimase stupita del fatto straordinario che prima del numero sei ci fosse un altro numero. Non
vidi la faccia che fece quando scoprì che anche quelli con i numeri due, tre, quattro e cinque
avevano diritto a passarle davanti. Probabilmente svenne.
Alla fine, strisciando come delle anguille, potemmo oltrepassare la porticina, proprio quando il
tizio annunciò “Passino i numeri dall’uno al venti!” e salimmo su un autobus che aveva visto tempi
migliori.
Giunti all’Ufficio Stranieri di Manzanillo facemmo una breve coda, consegnammo i documenti e
tornammo a casa. In pratica, impiegammo diverse ore per una questione di pochi minuti.
Una sera decidemmo, io e Maribel, di uscire per andare al “Nocturno”, una sorta di “night”, un
locale per innamorati dove mettevano musica mielosa, dove le luci erano cosi fioche che non
riuscivi nemmeno a vederti le mani e dove il condizionatore d’aria era bloccato sulla posizione
massima probabilmente da un quinquennio, a giudicare dalla temperatura che trovavi e che
rischiava di farti venire una polmonite appena entrato. Non era un locale da ballo: c’erano solo
tavoli da quattro persone ciascuno e il bar, dove servivano rum o birra e, se era la serata fortunata,
qualche salatino. Almeno questo era ciò che ricordavo di avere visto quel paio di volte che ero
riuscito ad entrarvi. Quella sera, infatti, non potemmo accedervi:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. Abbiamo il frigorifero rotto. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa. Ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel
porticato di casa a chiacchierare e ammazzare zanzare.
Qualche settimana dopo andammo di nuovo all’ufficio di Inmigración di Manzanillo per
consegnare i documenti per l’espatrio di Maribel, cioè la cosiddetta Carta de Invitación e il visto
dell’ambasciata italiana, che avevamo fatto qualche giorno prima a L’Avana.
Era il primo ottobre. Arrivati a Manzanillo consegnammo i documenti di Maribel e ci sentimmo
dire dall’agente dell’Inmigración che mancava il certificato di matrimonio:
- Scusate, ma per telefono non ce l’avevate detto che serviva anche il certificato di matrimonio! –
replicammo.
- Mi spiace, ma dovete portare una copia del certificato di matrimonio - ripeté l’agente. - Tornate
domani.
Alzarsi alle cinque del mattino e fare sessanta chilometri con dei mezzi di fortuna per sentirsi
dire da qualcuno “Tornate domani” ti fa venire improvvisamente voglia di fare cose strane e
inconsuete, tipo usare il ventilatore per disperdere nel vento tutti i documenti dell’ufficio o
rovesciargli la scrivania sulla testa. Non facemmo, invece, niente di tutto questo e decidemmo di
tornare a casa. Prima però l’agente mi disse:
- Mi devi dare anche il tuo passaporto.
- Perché? – chiesi stupito.
- Avevi fatto domanda di annullamento della residenza vero?
- Sì.
- E anche richiesta di Regreso Definitivo, giusto?
- Sì.
- Dobbiamo applicarci sopra il Permesso di Uscita. Appena sarà pronto te lo consegneremo a
casa.
Lasciare il mio passaporto a Manzanillo per un tempo indeterminato in un ufficio come quello,
che cambiava gli impiegati e gli orari d’apertura in continuazione, mi faceva preoccupare parecchio.
Comunque non avevo scelta e obbedii. Sul fatto che me lo avrebbero consegnato a casa non ci avrei
scommesso una lira e misi in preventivo l’ennesimo viaggio fino qua per venire a prenderlo.
Camminando sotto il sole delle undici del mattino giungemmo fino al bivio per Niquero, dove
era situata la fermata dei pullman; non era una vera e propria terminal (in questo caso ci sarebbe
stata una biglietteria), era solo un sito all’aria aperta con delle panchine che qualche anima pia
aveva deciso di sistemare all’ombra di alcuni alberi e non c’erano nemmeno gli amarillos a gestire
il traffico. Bisognava arrangiarsi da soli. Quella strada portava solo verso Campechuela, Medialuna
e Niquero, con una deviazione verso Pilón, una sessantina di chilometri in tutto e poi basta: oltre
non c’era più niente e proprio per questo motivo era molto difficile che qualche mezzo di trasporto
decidesse di praticare quella strada. C’era parecchia gente che aspettava da chissà quanto tempo e
chissà quanto avremmo dovuto aspettare ancora. Un tale vendeva granizado aromatizzato alla
frutta: era quello che ci voleva per dissetarsi. Con una raspa d’acciaio che non aveva mai visto il
sapone grattava un blocco di ghiaccio delle dimensioni di una mortadella, faceva scivolare la
“limatura” in un cartoccio di carta e ci colava sopra lo sciroppo del gusto che avevi scelto.
Evidentemente i batteri della raspa, del ghiaccio-mortadella e quelli del cartoccio appartenevano a
razze antagoniste che si eliminavano a vicenda, giacché il granizado era veramente buono e non ci
diede mai nessun problema gastrointestinale.
Ogni tanto si fermava un automezzo, che poteva essere un autobus o un pick-up statale,
dichiarava la propria destinazione e caricava qualcuno. Peccato che nessuno si inoltrasse fino a
Niquero: si fermavano tutti prima e Maribel mi disse che non conveniva prenderli perché sennò
saremmo rimasti abbandonati in mezzo a qualche minuscolo peasino e sarebbe stato ancora più
difficile trovare un mezzo di trasporto per arrivare a casa.
Ci sedemmo sulle panchine e, nella noia e nella calura generale, assistemmo passivi alla scena di
due loschi figuri che, praticando il vecchio “gioco delle tre carte”, fregarono venti pesos ad un
povero viandante con la promessa di fargliene guadagnare altri venti se avesse indovinato dove si
trovava l’asso di cuori. Il viandante ci rimase alquanto male quando scoprì di essere stato
imbrogliato, protestava e avrebbe voluto ottenere giustizia, ma i due tipi si allontanarono
indisturbati e con calma raggiunsero il ciglio della strada dove nel frattempo un agente della polizia
si era fermato con la propria auto e si intrattenne a conversare amichevolmente con loro.
Poi, finalmente, arrivò un camion diretto a Medialuna; salimmo assieme ad altre trenta persone e
dopo un’ora circa di sole, aria e polvere arrivammo in quella cittadina, che di famoso non aveva
nulla tranne che essere la città natale di Celia Sanchez Manduley, un’eroina della rivoluzione
cubana che da queste parti tutti conoscevano e ammiravano. Quindi, giunti alla terminal di
Medialuna, cambiammo facilmente automezzo ed in meno di mezz’ora arrivammo a casa.
Il giorno dopo, 2 ottobre, tornammo dunque a Manzanillo per consegnare il certificato di
matrimonio. Solita levataccia mattutina, solito viaggio stancante:
- Va bene, ora è tutto a posto – disse l’agente di polizia – Adesso dovete aspettare l’arrivo
della carta blanca con la quale vi recherete a Bayamo per pagare i 150 dollari del permesso d’uscita
dal paese, poi tornerete qui con la ricevuta. Tu sei anche iscritta alla Federación de Mujeres
Cubanas, Juventud Comunista, Milicias, ecc…? – chiese rivolto a Maribel.
- Sì – rispose lei.
- Allora mi devi anche portare i certificati di dimissione da questi organismi.
Avevamo capito che la trafila non era ancora terminata. Come se non bastasse circa una
settimana più tardi venne a casa nostra un agente:
- C’è un avviso di comparizione per te – disse a Maribel che era andata ad aprirgli la porta.
- COSA?! Un avviso di comparizione?! E per quale faccenda? – chiese stupita.
- Non saprei. Non mi hanno detto nulla. Me l’hanno dato ieri dicendomi di consegnarvelo.
Figuratevi che io vengo da Pilón e sono partito da laggiù apposta per questo.
Maribel lesse nervosamente il foglio che ordinava, appunto, di presentarsi il giorno dopo 8
ottobre all’ufficio di polizia di Manzanillo per comunicazioni importanti. Un avviso di
comparizione è una cosa piuttosto seria e di solito significa essere implicati in qualche caso
giudiziario. Andammo a casa di un nostro parente che aveva il telefono e provammo a chiamare
l’ufficio di Manzanillo per chiedere spiegazioni, ma le condizioni delle linee telefoniche da queste
parti permettevano di utilizzare il telefono in maniera accettabile solo se chiamavi un vicino di casa
(e sarebbe bastato quindi anche solo un interfono); se pensavi di fare una chiamata intercomunale
dovevi aspettare una giornata soleggiata, senza vento e senza pioggia. Siccome, invece, quel giorno
tirava un vento forte non si riusciva a prendere la linea con Manzanillo, nemmeno dopo ripetuti
tentativi.
Così il giorno dopo ci toccò di nuovo, in meno di una settimana, un faticoso viaggio di sessanta
chilometri. Io ne avrei anche fatto a meno, ma visto com’era nervosa Maribel accettai di
accompagnarla. All’ufficio di Manzanillo un agente ci illuminò sul motivo dell’avviso:
- Ti abbiamo convocata perché dobbiamo darti questo documento da consegnare all’ufficio di
polizia di Niquero.
- E ci avete fatto venire fin qua solo per questo? Non potevate mandarlo voi direttamente là?
- Mi spiace, è la prassi. E’ un documento che deve portare Maribel personalmente.
Mi pentii di non aver usato il ventilatore la volta prima per sparare in aria tutti i documenti
dell’ufficio. Se uno si mettesse ad analizzare fatti di questo tipo o diventerebbe pazzo o
diventerebbe pregiudicato, dato che risulterebbe piuttosto difficile resistere alla tentazione di
proferire parole alquanto oltraggianti a chi si era inventato tutta questa complicazione dell’avviso di
comparizione: avevano mobilitato un agente di Pilón per andare a Manzanillo a prendere un avviso
da consegnare a Niquero a Maribel che doveva andare a Manzanillo a prendere un documento da
portare a Niquero. Cos’era? La versione caraibica di “Giochi Senza Frontiere”?
Un sabato sera, dopo cena, ci preparammo per andare al “Nocturno” a bere qualcosa. Siccome lì
si pagava in moneta nazionale, anziché in dollari, era più conveniente che comprare birra o rum al
supermercato. Non avevo entrate e ogni spesa, anche la più piccola, andava misurata oculatamente,
tanto più che qualche imprevisto saltava sempre fuori: viaggi a Manzanillo o a Bayamo, marche da
bollo, ecc…
Come noto le donne ci mettono sempre parecchio tempo per vestirsi e truccarsi, così nel
frattempo stavo seduto sulla sedia a dondolo nel porticato, respirando aria fresca e ammazzando le
zanzare che volavano intorno alla mia testa. Dalle finestre delle case filtrava la luce dei neon che si
rifletteva sui marciapiedi: unica fonte di illuminazione in una notte buia e in una via dove
l’illuminazione pubblica era assente da anni. Si poteva persino sentire l’audio dei televisori
provenire dalle case dei vicini, i quali erano tutti sintonizzati sullo stesso canale, e si aveva quindi
l’impressione che provenisse in realtà dal cielo o da un impianto di diffusione sonora di dimensioni
colossali.
Finalmente, dopo circa venti minuti, Maribel mi raggiunse:
- Andiamo – disse.
Salutammo sua madre che restava a casa a guardare la televisione con sua sorella e la nipote.
Camminavamo lungo la strada principale di Niquero e passando di casa in casa era possibile seguire
comodamente i dialoghi del film che stavano dando in TV. Come ogni sera non c’erano molti
passanti: qualcuno si soffermava sulla porta della casa di un amico e dava un’occhiata alla
televisione; altri andavano in bicicletta senza luci; qualche massaia in ciabatte e bigodini rientrava
in casa col figlioletto in braccio che si era addormentato.
Dopo qualche isolato giungemmo nel quartiere dove c’era il “Nocturno”. L’oscurità era più
accentuata che dieci metri più indietro e intuimmo che quella sera proprio lì c’era un apagón:
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- No, mi spiace. Stasera non apriamo. C’è l’apagón. Non serviamo niente.
Io e Maribel ci guardammo delusi e tornammo a casa ripercorrendo la stessa strada dell’andata.
Ci mettemmo abiti più comodi e ci sedemmo sulle sedie a dondolo nel porticato a chiacchierare e ad
ammazzare zanzare.
Passavano i giorni e temevamo sempre che qualche pessima novità comparisse sulla soglia di
casa nostra nelle vesti di un agente di polizia venuto dallo spazio e che ci ordinasse di andare su
Marte a ritirare importanti documenti…
Circa quindici giorni più tardi venne a casa nostra uno degli agenti che ormai conoscevamo,
quello che assomigliava al sergente Garcia della serie di telefilm “Zorro”: questa volta portava una
notizia buona e una cattiva. Quella buona era che il mio passaporto era pronto e (incredibile!) me lo
aveva portato con le sue mani. Me lo consegnò e gli restituii (a dire il vero con un pizzico di
malinconia) la mia carta d’identità cubana. La notizia cattiva era che nella cartolina che consegnò a
Maribel per presentarsi a Bayamo a pagare i 150 dollari del permesso d’uscita c’era anche scritto, in
una minuscola nota sul retro, che avrebbe dovuto sottoporsi ad una visita medica obbligatoria del
costo di 400 dollari. Nei quindici minuti che seguirono rischiai di fratturarmi una mano quando, in
preda all’ira, tirai un violento cazzotto contro la porta d’ingresso. Quattrocento dollari da buttare in
una nuova e inattesa tassa? Mi ci vollero un paio di giorni per rassegnarmi a quest’idea e avremmo
dovuto ridurre ulteriormente le spese per poter arrivare al 19 novembre, data della partenza per
l’Italia, sperando sempre che non venisse fuori qualche altra novità.
Un mattino ci recammo a Bayamo, con i soliti mezzi di trasporto improvvisati. Siccome là
viveva Andy, una sorella di Maribel, decidemmo di prendere il viaggio con calma e di fermarci a
Bayamo due giorni.
La prima cosa che facemmo fu di recarci all’ufficio di polizia per chiedere informazioni sulla
visita medica. Per fortuna ci dissero che non era richiesta nessuna visita medica e che non
bisognava pagare quei 400 dollari: quella nota sul retro della cartolina era riferita solo ai cubani che
emigravano per gli Stati Uniti. Meno male! Avevamo risparmiato 400 dollari. Era assurdo
constatare come l’unico modo per ricevere delle buone notizie era che ti annullassero delle cattive
notizie. Il giorno dopo andammo in banca a pagare i 150 dollari e tornammo a Niquero. Ora
avevamo tutti i documenti di Maribel pronti da consegnare a Manzanillo, ultima tappa prima di
ricevere il tanto agognato permesso di uscita.
Una sera ci preparammo per andare al “Nocturno”. Avevo appena finito di ammazzare una
ventina di zanzare, Maribel aveva finalmente scelto cosa mettersi e in televisione stavano dando un
film noioso. Salutammo i soliti familiari che si trovavano a casa nostra il sabato sera (una dozzina di
persone circa) e ci incamminammo.
Un tizio che conosceva Maribel e che era al corrente di tutta l’organizzazione logistica dei locali
di Niquero (non è che fossero poi molti) ci aveva informati nel pomeriggio che al “Nocturno”
sicuramente quella sera avrebbero servito birra in bottiglia. Un fatto piuttosto raro.
- Buonasera – dissi al tipo che presidiava l’ingresso – Possiamo entrare?
- Sì, certo – rispose.
- Avete birra? – chiesi per precauzione.
- No, stasera solo rum.
- Ma ci avevano detto che stasera sicuramente c’era la birra – intervenne Maribel con
decisione.
- Sì, ma siccome al “Tropical” c’è lo show abbiamo dovuto mandare le nostre scorte là.
Il “Tropical” era l’altro cabaret del paese, quello un po’ più importante, dove si davano spettacoli
veri e propri con tanto di corpo di ballo, orchestra musicale, cantanti di musica leggera e comici in
erba. Ma quella sera non avevo voglia di vedere ballerine con le calze a rete smagliate e sentire
battute che non avrei capito e non avevo nemmeno voglia di bere rum, che mi avrebbe fatto venire
ancora più sete di quella che avevo. Anche Maribel era della stessa idea, cosi decidemmo di tornare
a casa.
Il 5 novembre andammo a Manzanillo a portare tutti i documenti richiesti: passaporto, ricevuta
del pagamento dei 150 dollari, dimissioni da Federazione delle Donne Cubane, Milizia, CDR,
Gioventù Comunista e libreta (la tessera per gli alimenti). Non fu un grande giorno per Maribel
dover rinunciare, contro la propria volontà e non si sa bene per quale motivo, all’affiliazione a
questi organismi nei quali aveva sempre creduto e militato con passione. In pratica l’obbligarono a
rendersi uguale a molti altri compatrioti che, anch’essi emigrati all’estero, di appartenere a questi
organismi invece non gliene era mai fregato niente. Come se non bastasse le chiesero anche di
restituire, inaspettatamente, la carta d’identità cubana:
- Non ti serve più; all’estero ti basta il passaporto - le disse l’agente. – Vieni a ritirarlo la
prossima settimana.
Nessuno ci aveva mai informato di questo fatto della restituzione della carta d’identità; poi in
Italia scoprimmo che praticamente tutti i cubani che vivevano là questa cosa la sapevano molto
bene, tanto che prima di uscire da Cuba si facevano fare un duplicato della carta d’identità
(fingendo di averla smarrita) e consegnavano quella vecchia. In tal modo quando tornavano a Cuba
per le vacanze potevano simulare facilmente di essere ancora residenti cubani e godere di alcuni
vantaggi, come per esempio viaggiare su treni, pullman e farsi fare certificati all’anagrafe pagando
in moneta nazionale anziché in dollari. Maribel, invece, la sua “carta d’identità” l’aveva ormai
irrimediabilmente “persa”… e non solo quella; forse aveva perso anche la sua “identità”. Come
dire: dare tutto per la rivoluzione e non ricevere in cambio nemmeno un “Grazie per essere stata con
noi tutti questi anni”.
Una sera volli provare ancora un’ultima volta l’entrata al “Nocturno”. Chissà quale sarà il
motivo dell’impedimento questa sera? pensai.
Arrivammo davanti all’ingresso, bussammo alla porta ma nessuno apriva. Guardammo in alto (il
locale era situato al primo piano), si scorgevano le leggere luci accese, si poteva anche sentire la
musica, piuttosto ovattata, segno che il locale era aperto e stava funzionando. Ma forse erano solo
fantasmi, dato che ci stancammo di bussare senza che nessuno venisse ad aprire. Attendemmo
alcuni minuti, sperando che qualche cliente uscisse, invano. Alla fine capimmo che al “Nocturno”
non saremmo entrati forse mai più.
Tornammo indietro ma prima di arrivare a casa decidemmo di provare un altro locale. L’unico
che poteva ancora essere aperto dopo le nove di sera era il “Bodegón”, una bettola sulla strada
principale, all’angolo con la Plaza del Pueblo, dove il primo maggio di ogni anno si radunava la
popolazione per assistere al comizio di qualche funzionario di partito. Il “Bodegón” era
normalmente frequentato da pochi avventori solitari: bevitori accaniti e fumatori di “Popular”. Ci
sedemmo ad uno dei tavolini, quello più illuminato dalla debole luce dell’unica lampadina esistente.
Altri tavolini erano situati nell’ombra, occupati da qualche cliente. Quella sera per fortuna c’era
birra e ne ordinammo due, finalmente. Chiacchierammo un po’, io terminai rapidamente la mia birra
e ne ordinai un’altra. Uno dei clienti sputò per terra, su un pavimento che non mostrava differenze
particolari tra prima e dopo lo sputo. Ogni tanto entrava un nuovo cliente e si soffermava in piedi al
banco per comprare le sigarette oppure per bere rapidamente un bicchierino di rum. Nessuno faceva
caso a noi, nemmeno il barista. Non rimanemmo lì più di una mezz’ora, poi andammo a casa.
L’ultima volta che andammo a Manzanillo fu per ritirare il passaporto di Maribel. Era tutto a
posto, avevano applicato il permesso di uscita ed eravamo giunti al termine della lunga maratona
preparatoria per l’espatrio. Mancava una settimana alla partenza; sarebbe potuto andare anche
peggio, considerando che nessuna vera catastrofe si era ancora abbattuta su di noi fino ad ora.
Maribel alternava periodi di euforia con altri di malinconia. Ci credo, dovendo andare incontro
ad un nuovo futuro che non si sapeva ancora cosa ci avrebbe riservato. Ma ormai eravamo in ballo e
bisognava ballare… anche se a me, a dire il vero, ballare non è mai piaciuto.
CONTINUA
ALESSANDRO PILOTTO
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