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Valente ad Adrianopoli, l’inizio della fine dell’Impero

Creato il 05 marzo 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Il 9 Agosto 378 un numero imprecisato di Goti, probabilmente nell'ordine dei centomila, spazza via l'esercito dell'Imperatore romano d'Oriente Valente, uccidendolo. È il primo segno tangibile del cambiamento in atto, della violenza futura lungo le strade romane e che porterà al crollo del potere sull'Occidente della Città Eterna.

Antefatto

Nel 375 d.C. la popolazione germanica dei Goti, spinta dagli archi imponenti degli Unni e dalla loro violenza, cerca rifugio all'interno dell'Impero di Roma. Non che l'Impero non fosse preparato a una simile evenienza: già dal tempo di Nerone si era deciso di ospitare popolazioni nomadi, scappate da terre ostili e in cerca di riparo, integrate attraverso l'arruolamento dei maschi giovani e lo sparpagliamento dei nuclei familiari per tutto il territorio imperiale come contadini. Nel 375, però, l'Imperatore in carica della pars orientis, Valente, ha preoccupazioni più serie. Il fronte orientale lo impegna notte e giorno e richiede la sua presenza fisica per opporsi alle pretese egemoniche della Persia, governata dall'energico re Sapore. La notizia, dunque, di questa grande popolazione - le stime maggiori si attestano alle duecentomila teste - che richiede la sua personale attenzione lo coglie in un momento di difficoltà. Accetta di ricevere un'ambasceria, che deve recarsi ad Antiochia, dove l'imperatore era acquartierato, con la quale stipula un trattato di integrazione favorevole alla popolazione germanica, del quale però non sappiamo praticamente nulla. Di certo sappiamo che Valente, nonostante quello che gli storiografi e i cronisti del passato ci raccontano, non accoglie a braccia aperte i nuovi arrivati, anche se sembrano essere un potenziale nuovo bacino di soldati e di tasse. È ben conscio della sostanziale mancanza di presidi sui confini occidentali, dove i Tervingi e i Greutungi - i due rami in cui erano divisi i Goti in quel momento - si sono affacciati e non ha nessuna intenzione di lasciarli entrare senza delle garanzie. In ogni caso, l'imperatore è costretto a siglare un patto sostanzialmente favorevole, anche se solo con i Tervingi. Del patto si può intuire che non prevede il consueto sparpagliamento dei nuclei familiari per territori dell'Impero, con la condizione di una conversione al cristianesimo e di una sostanziale collaborazione stretta con i quadri imperiali. Questo patto nasce dalla necessità di pacificare velocemente le cose e dall'impossibilità dell'Imperatore di trasportare velocemente l'esercito imperiale nei pressi del Danubio.

Nell' autunno del 376 i Tervingi, guidati da Frithugairns, si separano dai Greutungi e attraversano il Danubio, soggiornando nelle campagne e vivendo del cibo che si erano portati con loro. Lupicinio, comandante militare della regione, fa spostare il loro accampamento in una zona più controllabile dalle sue scarse forze, vicino alla città di Marcianopoli. I vari resoconti dei cronisti descrivono ora una delle pagine più impietose e basse della storia romana, paragonabile ai soprusi di Verre alla popolazione sicula o alle persecuzioni ai danni dei cristiani. Infatti gli ufficiali dell'Impero cominciarono a vessare la popolazione, tenendola per la collottola e commettendo vari soprusi: i Tervingi, esaurite le vettovaglie, potevano fare solo affidamento sui magazzini dei romani. Le continue tensioni poi, sfociarono in violenza quando Lupicinio, facendosi trascinare dalla paura per una rivolta e dalle scarse risorse militari che possedeva, invita a cena i capi dei Goti, che nel frattempo si erano riuniti, Frithugairns e Alavivo come gesto di buona volontà. La cena non avviene neanche: i due capi germanici vengono presi in ostaggio in seguito a alcuni scontri fra Goti e popolazione locale, anche se poi Lupicinio è costretto a rilasciarli. È guerra.

La ribellione dei Goti

I Goti ribelli sono letteralmente nella tana del lupo. Il territorio che si trovano di fronte nel 377 è chiuso al nord dal Danubio e a sud da una propaggine dei Balcani, i monti Haemus. Riescono, grazie all'intuito del loro re Frithugairns, a sventare un'astutissima imboscata dei generali romani in una località chiamata Ad Salices. Scendono lentamente verso sud, verso Costantinopoli: se il loro obiettivo fosse di conquistarla non ci è dato saperlo. Probabilmente si rendevano conto dell'impossibilità, in duecentomila, di far fronte a un Impero che contava, nelle stime più ridotte, su diciassette milioni di abitanti e un esercito attivo di trecentomila armati. Un esercito che, però, ora è lontano e può inviare incontro ai Goti solamente poche unità.

Il 377 passa senza che si possa intuire un vincitore e un vinto. Trascorso l'inverno, l'Imperatore Valente è finalmente riuscito a raggiungere i monti Haemus alla testa di quarantamila unità. È convinto di avere dalla sua un numero maggiore di combattenti, inoltre può contare sull'appoggio del suo collega della pars occidentis, Graziano, che è già partito in suo soccorso per aiutarlo a fermare i saccheggi incontrollati degli invasori. Ignora la reale entità delle forze ribelli, che vedono un rapporto di 1,5 a 1 in termini di numeri. Si avvicina velocemente all'accampamento nemico e si trova di fronte a una scelta: attaccare subito o aspettare l'arrivo del collega d'Occidente? È certo che non solo ci sono delle discrepanze tra la corte che segue l'Imperatore e lo stato maggiore, ma anche internamente allo stato maggiore stesso. Quello che fa decidere per l'attacco immediato altro non è che avarizia. Ogni tattico vicino a Valente che non avesse dei secondi fini di adulazione futile - "Mio Imperatore, con la Sua guida nessun esercito barbaro può resistere" - consiglia prudenza e di attendere Graziano. Ma dividere la gloria no, questo non è accettabile dall'Imperatore di Costantinopoli: incredibile come un momento di avarizia e meschinità rovini una gestione sostanzialmente efficace e intelligente.

Valente e la sua mossa azzardata

Valente decide di rischiare il suo esercito, la sua stessa vita e si presenta di fronte al campo dei Goti. L'accampamento consiste nei carri che trasportavano la popolazione posizionati in un cerchio perfetto, "come forgiato al tornio", una tecnica antica di millenni e usata da praticamente tutte le popolazioni della sterminata steppa asiatica. Giunti in vista dell'esercito nemico, accampato nei pressi di Adrianopoli, l'Imperatore arresta. Le forze dei romani sono organizzate in maniera semplice, con una divisione fra centro, popolato dalla fanteria pesante e da poche unità di leggera, e due ali di cavalleria pesante a sinistra e a destra. Mentre Valente è impegnato nello scambio di alcuni ostaggi, l'ala destra, già pronta alla battaglia, attacca di sua iniziativa: è il segnale che dà il via alla giornata campale. Mentre l'ala destra attacca, quella sinistra, pur non essendo ancora pronta, avanza velocemente e riesce a portarsi molto vicino al cuore dell'accampamento nemico, facendo presagire nella vittoria e respingendo i nemici all'interno dei carri. E in quel momento che succede l'impensabile. Un foltissimo numero di cavalieri, guidati dai leader dei greutungi Alatheo e Safrax, rinforzati da un contingente di cavalieri alani giunti in soccorso di Frithugairns l'autunno precedente,

"partirono come il fulmine dalla vetta di una montagna seminando il panico e uccidendo tutti coloro che si trovavano sul percorso del loro tempestivo attacco"

L'ala sinistra sbanda, la cavalleria viene spazzata via e lascia scoperto il centro dell'esercito, solido, compatto ma terribilmente goffo, ancora in formazione testudo. L'effetto è drammatico.

"I soldati a piedi si ritrovarono senza protezione, e talmente stretti l'uno all'altro che quasi nessuno riuscì a estrarre la spada o a sollevare il braccio [...]. Le frecce, strumento mortale proveniente da ogni direzione, centravano quasi sempre il bersaglio con effetto letale, poiché non era possibile vederle arrivare in anticipo o proteggersi in alcun modo [...] e nella strettezza dei ranghi non c'era spazio per arretrare, mentre l'affollamento crescente tagliava ogni via alla ritirata"

È un massacro, le perdite totali dell'esercito romano ammontano ai 3/4 del totale e Valente, l'Imperatore, cade anch'esso con il suo esercito. Secondo Ammiano, lo storico che scrive le parole citate sopra, l'unica disfatta simile l'avevano subita cinque secoli prima a Canne, per mano di Annibale il cartaginese. La vittoria lasciò i Goti padroni assoluti non solo del campo di battaglia ma anche della regione intera. Una regione tremendamente vicina alla gloriosa capitale, Costantinopoli. Nemmeno Graziano, che comunque è vicino, può intervenire e si ritrova costretto impotente a guardare i Goti seminare il panico e giungere fino allo stretto dei Dardanelli.

Epilogo

La gelosia e la fame di gloria di Valente avevano distrutto in un solo giorno l'Impero, portandolo all'orlo del collasso. Fu questa la "porta" del tardo-antico, l'anticamera della dissoluzione dell'Impero più longevo della storia: da questa sconfitta il potere di Roma non sarà più lo stesso. Costretto a concessioni sempre più forti alle popolazioni germaniche, subirà l'attacco degli Unni e vedrà la maggioranza delle sue legioni erose velocemente dalle troppo numerose battaglie. Il sistema fiscale collasserà, perché nessuno sarà più in grado di farlo rispettare e, alla fine, l'ultimo Imperatore, quasi un bambino, verrà deposto e scacciato per sempre.


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