TEATRO SAN BABILA e
“LA PIRANDELLIANA”
Presentano
VALERIA VALERI PAOLO FERRARI
“GIN GAME” di D.L.Coburn
debutto NAZIONALE
REGIA
Francesco Macedonio
Scene Bruno Garofalo Costumi Maria Grazia Nicotra Musiche Massimiliano Forza
Gin Game offre la visione di uno spaccato esistenziale riguardante due vecchi, Fonzia e Weller, ospiti di una casa di riposo. Weller, ricercatore di mercato in pensione, insegna a Fonzia, una vecchia puritana figlia di un pastore metodista, il gin nel quale da sempre eccelle ed è affettuoso e cordiale ma quando Fonzia, che ha imparato subito, comincia a vincere superando il maestro, scatena il suo disappunto, tanto più crescente fino a diventare collera, rabbia allo stato puro.
Dietro questa collera si nascondono ragioni più profonde del semplice orgoglio ferito: l’ anziano giocatore è vittima di un passato fatto di delusioni, di frustrazioni economiche e personali; Fonzia sfoga le sue delusioni fatte di abbandoni e altrettante delusioni, cedendo al turpiloquio ed agli istinti ben lontani dal suo abituale stile di vita e dalla sua educazione.
Il finale ci mostra la dura realtà: due vecchi stanchi e sfiduciati che avrebbero potuto essere due buoni amici se non fossero stati troppo impegnati a nascondere la propria infelicità dietro il velo dell’ ipocrisia
La coppia Valeri-Ferrari, deve il suo connubio teatrale ad uno spettacolo del 1965 intitolato “Lo scippo” di Nando Cicero e “Gin Game” è stato il loro cavallo di battaglia dal 1990.
Valeria Valeri è una poliedrica attrice-doppiatrice. Nel corso della sua carriera ha recitato con le compagnie Pagani-Cervi-Calindri, Sbragia-Garrani-Salerno (di Enrico Maria Salerno è stata anche la compagna, da cui ha avuto la figlia Chiara), ha recitato con Alberto Lupo e Gianrico Tedeschi, passando dalle commedie brillanti, ai grandi classici del teatro e anche ai drammi. In televisione ha recitato in diverse serie tv: da “Il giornalino di Gian Burrasca”, “Disperatamente Giulia”, “Un posto al sole”, “Il Commissario Manara”. Parallelamente a quella di attrice ha svolto anche la carriera di doppiatrice sia televisiva che cinematografica.
Paolo Ferrari si è diplomato alla scuola di arte drammatica Silvio D’Amico, lavorando nella Compagnia Gioi-Cimara-Bagli e poi in quella dei Giovani, iniziando una carriera di attore di prosa, di rivista, e alla radio, accompagnata da quella televisiva. Ricordiamo la sua interpretazione di Archie Goodwin nella serie “Nero Wolfe". (Gennaro D’Avanzo) ufficiostampa@teatrosanbabila
In passato, come regista, ho già affrontato due lavori, nei quali i protagonisti erano due anziani: “Tango viennese” di Peter Turrini e “Vecchio mondo” di A. N. Arbuzov. Il primo era un testo a sfondo sociale, il secondo calcava leggermente la mano, con sottile ironia, su un mondo romantico, quasi cechoviano.
Ciò che, invece, mi ha colpito, fin dalla prima lettura, in “Gin Game” di D. L. Coburn, è stata la mancanza di sentimentalismo, l’ironica, comica crudeltà che corre nei rapporti tra i due protagonisti: Weller Martin e Fonsia Dorsey. Ciò che li accomuna, per cui si cercano è la solitudine, ma soprattutto la passione per il gioco delle carte. S’incontrano in una casa di riposo per anziani e, precisamente, nella veranda di Villa Bentley: un ambiente squallido, dove non si sente la presenza costante e amorosa di qualcuno che ne curi l’arredo. Pochi libri, qualche pianta, un dondolo, un tavolo da gioco. È un ambiente di passaggio come può esserlo la sala d’attesa di una stazioncina ferroviaria, un luogo dove ci si può rifugiare nei giorni in cui gli altri pazienti ricevono la visita di parenti e amici, per sfuggire alla condizione di esseri soli e abbandonati da tutti, forse per non essere spettatori della gioia degli altri. Tuttavia la casa di riposo, come i nostri due personaggi, conserva il ricordo di un antico splendore, di una vita diversa – e ciò si evince da qualche dettaglio sfuggito al degrado, all’incuria del tempo. Antico splendore che Weller e Fonsia vorrebbero far rivivere. Però non si deve pensare a “Gin Game” come a un testo monotono: è un testo elettrizzante e vivace a causa della passione del gioco che anima i due personaggi. Ed anche se ad una prima lettura, all’inizio, Fonsia può apparire, o meglio cerca di apparire, come una personcina indifesa, un’anima candida, a poco a poco comprendiamo che è una giocatrice più esperta e migliore di Weller, anche perché sorretta da un’invidiabile fortuna. Quando Fonsia entra nella veranda, scorgendo Weller, impegnato in un solitario, improvvisamente, imbarazzata, esclama: “Oh,… ero convinta che qui non ci fosse nessuno!” Si può crederle come fa Weller, ma si può anche pensare, senza essere troppo malevoli, che menta. Forse l’aveva visto entrare e l’aveva seguito. Si può pensare che lei è la cacciatrice e lui la preda. Si può pensare che lei il gioco lo conosceva, il gioco con tutte le sue regole e sfumature, e che se vince la prima partita non è solo per una fortuna da principiante, ma è frutto di un’abilità consumata. Delle volte, e non solo nel gioco, Fonsia è simpaticamente bugiarda. Il tavolo da gioco, al centro della scena, è lo specchietto per le allodole, è un luogo d’attrazione. I due protagonisti vi girano attorno, ma poi, inevitabilmente, vi (ne) sono attratti come da una calamita: il gioco è la loro droga. I due protagonisti cedono al fascino, al brivido, diciamo pure alla brutalità del gioco, in cui si sentono, anche se Fonsia non lo dà a vedere, totalmente coinvolti. Specialmente nell’ultimo quadro la natura sembra riflettere il loro stato d’animo. Fuori si avvicina e poi scoppia un temporale in tutto il suo furore, come in tutto il suo furore è scoppiata la lite tra i due giocatori, che si accaniscono nel gioco e si insultano vicendevolmente, provocando nello spettatore momenti di vivace ilarità. D. L. Coburn ha scritto una commedia garbata, giocata con maestria su vari stati d’animo, sorretta da un sicuro mestiere, pervasa da una comicità esilarante, che solo due grandi attori, esperti del “gioco” del teatro possono portare alla ribalta scoprendone tutte le sfumature. In essa possiamo trovare qualcosa di noi stessi, delle nostre fissazioni e manie, delle nostre imperfezioni, dei nostri vizi, che ci rendono difficile il rapporto con gli altri, che mettono in rilievo tutto ciò che di negativo si cela in noi. Forse saper perdere con dignità è la più grande vittoria. (Francesco Macedonio) ----------------------------- Questa ed altre notizie le trovi su www.CorrieredelWeb.it - L'informazione fuori e dentro la Rete. Chiedi l'accredito stampa alla redazione del CorrieredelWeb.it per pubblicare le tue news.