Eccolo il nuovo film di Michele Placido seguito dall’immancabile stuolo di critiche, proteste e minacce di boicottaggio che ormai accompagnano ogni sua fatica. Se da una parte queste critiche possono avere un fondamento (la rappresentazione di Vallanzasca è, checchè se ne dica, positiva), dall’altra cadono immediatamente appena si reinquadra l’opera di Placido nel suo corretto contesto: un gustoso film di genere con un protagonista carismatico e nulla più, tanto che anche la presenza al Festival di Venezia 2010 appare piuttosto ingiustificata.
Dopo l’ottimo Romanzo Criminale (probabilmente il miglior action italiano degli ultimi dieci anni) e questo Vallanzasca, si può tranquillamente affermare che se Placido abbandonasse le sue velleità autoriali (Il grande sogno, Ovunque sei), spernacchiate un pò ovunque scatenando le sue ire, e si concentrasse su questo genere, praticamente morto qui da noi, ci guadagneremmo un pò tutti, facendo probabilmente passare Placido agni annali come l’onesto artigiano che ha rivitalizzato il glorioso genere d’azione italiota nel nuovo millennio.
Nella Milano degli anni Settanta
ascesa, caduta ed evasioni varie di Renato Vallanzasca si alternano a ritmo di sesso (l’iniziale relazione con la Solarino da cui nasce un figlio, in seguito dimenticati dalla sceneggiatura, lo sfarzoso – per quanto possibile – matrimonio in carcere per arrivare poi all’attuale compagna), droga (le righe di coca si sprecano, mentre Enzo [Filippo Timi] diventa tossicodipendente tanto da venire allontanato dalla banda) e rock’n roll (usato in colonna sonora insieme ad un montaggio frenetico per esprimere l’euforia e gli eccessi delle tante rapine mandate a segno).
Il risultato è, come si diceva, molto godibile, anche se la sceneggiatura un pò prolissa confonde lo spettatore perdendosi in alcuni passaggi e non arrivando ad eguagliare le atmosfere e la tensione che regnavano in Romanzo criminale.
Kim Rossi Stuart interpreta bene e in maniera sentita (ma il suo accento milanese è troppo posticcio per risultare credibile) un personaggio ben delineato, un ladro “per vocazione”, un criminale gentiluomo, con un proprio codice d’onore, che uccide solo se costretto a farlo e che, con la sua ironia, esercita un fascino irresistibile su giornalisti e
desperate housewives italiane. E’ il ritratto di un uomo (e lo dice lui stesso) che ha scelto di fare quello che fa consapevolemente, perchè è l’unica cosa che gli riesce, l’unica – per lui – per la quale vale la pena vivere, guidato – anche – da un forte anti-autoritarismo, un odio inestinguibile per le forze dell’ordine che lo porta a provocarle anche quando sa bene che non può venirgliene niente (i linciaggi subiti dai secondini). Inutile però cercare significati alti, o prendere a esempio le vicende e il personaggio come chiave di lettura degli anni Settanta, o scorgerci la rappresentazione critica di una certa epoca. Il film di Placido è una pellicola puramente di genere, girata con ritmo e mano sicura che intrattiene per due ore senza troppe pretese.
EDA