«Confermo: la montagna sotto cui si scaverebbe il tunnel della Torino-Lione è radioattiva». Il professor Massimo Zucchetti, ingegnere nucleare e docente del Politecnico di Torino, ha condotto l’ennesimo test il 5 marzo: munito di rilevatore, insieme a un gruppo di volontari accompagnati dalla troupe video del “Corriere della Sera” ha ispezionato l’imbocco delle vecchie miniere di uranio aperte dagli anni ’60 sui monti che sovrastano l’attuale sito tra Chiomonte e Giaglione, occupato e recintato in vista del futuro cantiere Tav. Risultato allarmante: la radioattività misurata è anomala e diventa 20 volte superiore alla normale soglia di sicurezza man mano che ci si avvicina ai siti uraniferi affioranti in superficie. E se il futuro tunnel tagliasse il profondità la vena di uranio che “dorme” nelle viscere del massiccio dell’Ambin, fra Italia e Francia?
L’ex miniera di uranio tra Giaglione e Venaus nella quale si è inoltrato Zucchetti coi cine-operatori del “Corriere”, insieme ad ambientalisti come il
geologo Boris Bellone, dista pochissimi chilometri dalla Maddalena di Chiomonte, il “fortino” militarizzato dalla polizia in attesa dei lavori di scavo del contestatissimo “cunicolo esplorativo” destinato a incrociare il futuro “tunnel di base” del traforo ferroviario italo-francese, con imbocco alle porte di Susa. Zucchetti e il suo team erano dotati di tre rilevatori di radiazioni, tarati al Politecnico torinese. «A Susa, normale fondo naturale: 400 colpi/secondo», scrive Zucchetti nel suo report, pubblicato dal sito “NoTav.info”. Seconda rilevazione a Giaglione, sulla statale 25 del Moncenisio: 550 colpi al secondo. Spiegazione: si innalza il fondo di radioattività a causa delle presenza diffusa di uranio nella zona. Poco più avanti, ancora all’aria aperta, davanti all’ingresso della miniera, il contatore registra 1.500 colpi al secondo: il triplo del normale livello naturale. Quindi, il rilevatore “impazzisce” appena ci si inoltra nell’ex miniera: 7.000 colpi al secondo, cioè venti volte la radioattività naturale.Il sito visitato dall’équipe guidata da Zucchetti è solo uno dei 28 affioramenti di uranio che l’Agip negli anni ‘70 aveva individuato nella zona: «In valle di Susa – spiega il professore – ci sono 28 posti nei quali i filoni di uranio vengono in superficie. Sono sparsi un po’ ovunque: figuriamoci cosa c’è dentro queste montagne». Secondo Zucchetti, è quindi «una colossale bugia» sostenere che “non ci sono problemi per la presenza di uranio in val Susa”, perché i dati parlano da soli. Altra bugia: sostenere che il nuovo tracciato progettuale del tunnel per la Torino-Lione non attraversi più formazioni di uranio. «Qui siamo a poca distanza dal “non-cantiere” del
tunnel geognostico», dice Zucchetti all’uscita dall’ex miniera, e ripete: «La valle di Susa è piena di affioramenti di uranio, ovunque».Già nel 1959 si inizia a parlare di sfruttamento dei giacimenti minerari uraniferi in valle di Susa, scrive lo stesso Zucchetti in uno studio realizzato dal Politecnico di Torino per la Comunità Montana valsusina. Prima ancora del 1960, la Somiren SpA avvia una campagna di prospezione tra Venaus, Novalesa e Giaglione: si scoprono affioramenti uraniferi consistenti a Molaretto, lungo la statale del valico del Moncenisio, ma l’impresa valuta non conveniente lo sfruttamento industriale. Nuovi studi nel 1965 da Sergio Lorenzoni e nuove conferme: rilevanti formazioni di uranio nel sottosuolo del massiccio dell’Ambin, risalenti al Paleozoico. A seguire, lo studio di un altro tecnico, Daniele Ravagnani, che per conto del Gruppo Mineralogico Lombardo mappa i giacimenti di uranio in val Susa segnalando soprattutto due affioramenti, quello di Molaretto sopra Venaus e quello di San Romano, nelle vicinanze di Salbertrand.
Col passare degli anni, gli studiosi mettono a fuoco il problema: ulteriori conferme nel 1975 da Tamara Bellini, che definisce i monti dell’Ambin – sotto i quali dovrebbe transitare l’euro-tunnel della Torino-Lione – come «uno dei più interessanti giacimenti uraniferi delle valli occidentali piemontesi», come testimonia l’elevatissima radioattività tuttora riscontrabile nelle prime gallerie di ricerca aperte a Molaretto. Due anni dopo, nel 1977, si muove l’Agip: la compagnia energetica nazionale chiede alle autorità il via libera per nuovi sondaggi sui giacimenti uraniferi di nove paesi della valle, tra i quali Venaus, Chiomonte, Giaglione, Exilles e Salbertrand. «Gli studi effettuati nel biennio 1978-1979 – racconta
Zucchetti – portarono alla conclusione che nelle aree esplorate si erano registrati impulsi radioattivi dovuti alla presenza di uranio, torio e potassio-40».Nel dicembre del 1980, scatta l’allarme degli ambientalisti italiani e francesi per l’iniziativa della società Minatome, intenzionata a compiere analoghe ricerche sull’uranio lungo il versante francese del Moncenisio, e partono le prime raccolte di firme. Per il valsusino Mario Cavargna, allora presidente di Pro Natura Piemonte, l’apertura di miniere “nucleari” costituirebbe una autentica calamità per l’ambiente nonché una seria minaccia per la salute dei valligiani, a causa della possibile dispersione di minerale radioattivo nei prati e del rischio di inquinamento delle falde acquifere. Piovono interrogazioni in Parlamento, in Provincia e anche in Regione, dove si costituisce una sorta di “unità di crisi” coi vertici della sanità pubblica e i tecnici del Cnen. Decisione: sospendere, per prudenza, tutte le campagne di scavo per la ricerca dell’uranio in valle di Susa.
Il caso viene riaperto nel 1997, quando Pro Natura e Legambiente fanno prelevare alcuni frammenti di minerale nella vecchia miniera di Molaretto. «Il campione di roccia proveniente da una vecchia miniera del comune di Venaus – scrivono gli ambientalisti nella loro relazione all’Arpa del Piemonte – presenta elevati livelli di radioattività naturale». Da quelle misurazioni, dice oggi Zucchetti, si potrebbe affermare che, qualora effettivamente il tracciato della galleria ferroviaria andasse ad interessare formazioni minerali di uranio, la cosa «comporterebbe non irrilevanti problematiche di protezione dalle radiazioni ionizzanti, ovvero sarebbe giustificato l’allarme lanciato dalla pubblica informazione, relativamente ad un “pericolo uranio” in val Susa». Se è vero che l’Aem di Torino ha condotto nuove ricerche in base alle quali non sarebbe pericoloso il livello di radioattività rilevato lungo i condotti della “gronda” idroelettrica che sfrutta le acque della Dora Riparia, l’enigma resta completamente irrisolto di fronte a una galleria ben più profonda e lunga 50 chilometri, come quella che verrebbe scavata per la Torino-Lione sotto il Massiccio dell’Ambin, che resta probabilmente il maggiore giacimento di uranio delle Alpi occidentali.