di Yanis Varoufakis
da yanisvaroufakis.eu, traduzione di Faber Fabbris
Questo discorso è stato tenuto da Yanis Varoufakis al Forum Ambrosetti il 14 marzo 2015.
Marzo 1971. L’Europa si prepara al ‘Nixon Gold Shock’, e comincia a progettare una unione monetaria europea, più vicina al Gold Standard che al sistema di Bretton Woods, ormai al tramonto. È in questo clima che l’economista Nicholas Kaldor, dell’Università di Cambridge, pubblica un articolo su The New Statesman. Cito:
… sarebbe un errore pericoloso credere che un’unione monetaria ed economica possa precedere un’unione politica; o illudersi che l’unione monetaria funzionerà (secondo i termini del rapporto Werner) “da catalizzatore per l’evoluzione dell’unione politica, della quale nel lungo termine non potrà comunque farne a meno”. La creazione di una unione monetaria e di una aurorità comunitaria di controllo sui bilanci nazionali genererà infatti pressioni tali da portare il sistema al collasso; questo condurrà ad una brusca frenata del processo d’integrazione politica, invece di accelerarla.
Purtroppo, il lungimirante avvertimento di Kaldor fu ignorato; si preferì un retorico ottimismo sul tema dell’unione monetaria capace di creare legami più profondi fra le nazioni europee. Anche un’eventuale crisi del settore finanziario (come quella del 2008), avrebbe costretto i dirigenti europei a pervenire all’unione politica, comunque necessaria.
Così, mentre gli Stati Uniti riciclavano i surplus degli altri paesi su scala globale, l’Europa si lanciò nella creazione di una specie di Gold Standard: il risultato fu un ‘muro di capitali’ che alimentò la finanziarizzazione dell’economia americana e un’ondata mondiale di creazione monetaria da parte dei privati – nella quale i francesi e i tedeschi si lanciarono con entusiasmo.
All’interno dell’Eurozona, l’illusione di un rischio calcolato fu rafforzata dalla falsa idea che prestare ad un’istituzione greca o ad una bavarese comportasse più o meno gli stessi rischi (tutta l’unione era basata sul principio di Debiti pubblici totalmente separati e di Sistemi Bancari separati).
Di conseguenza, le bilance commerciali in surplus generarono flussi netti di capitali verso i paesi in deficit, cui seguirono bolle speculative insostenibili nel settore privato e in quello pubblico. Il nostro modello di crescita nell’Eurozona, signore e signori, si basava prevalentemente su un finanziamento delle esportazioni nette dei paesi in surplus fondato sul credito bancario privato.
Nella costruzione dell’Eurozona, abbiamo di fatto eliminato tutti gli ammortizzatori, ben sapendo che in caso d’urto, i danni sarebbero stati ingenti. L’urto è arrivato, sotto le sembianze della Grande Crisi dell’Eurozona, nel 2010, sulla scia del collasso globale del 2008; al mio Paese, la Grecia, è toccato il ruolo del canarino nella miniera. Ma l’Europa ha deciso di continuare a ignorare la natura della crisi, considerando le insolvenze causate dall’esplosione delle bolle (prima nel settore bancario, poi sul debito pubblico) come dei semplici problemi di liquidità, elargendo prestiti a paesi fortemente indebitati tramite SPV (“società veicolo” per la cartolarizzazione dei crediti, ndt), molto simili a pacchetti di CDO (collateralized debt obligations, Obbligazioni garantite da debiti http://it.wikipedia.org/wiki/Collateralized_debt_obligation ). Il risultato finale è stato il trasferimento delle perdite potenziali dai libri contabili delle banche ai contribuenti europei; un trasferimento le cui modalità hanno scaricato il peso maggiore della manovra proprio su quei paesi che meno erano capaci di sopportarlo.
I risultati di questo approccio nefasto si sono riversati per circa due anni sul mercato delle obbligazioni, con effetti catastrofici (l’Italia è arrivata a due passi dal collasso). Effetti che Mario Draghi ha contrastato con coraggio nell’estate del 2012. Quell’intervento, indubbiamente riuscito, se fu in grado di calmare i mercati valutari, spostò purtroppo la crisi verso il terreno dell’economia reale dell’Area Euro. Perché generò ondate di investimenti asimmetrici, proprio quando i risparmi improduttivi (l’altra faccia della crisi) continuavano ad accumularsi, diminuendo così i rendimenti e provocando una crisi di fiducia che si è aggravata fino alla deflazione su scala continentale. Un effetto deleterio che Mario Draghi è chiamato ancora una volta a sedare, tramite la politica – tanto a lungo attesa – dell’allentamento quantitativo, del quantitative easing (QE).
È da ormai cinque anni che la crisi danneggia il nostro sistema sociale, e ci lascia un’Europa in totale perdita di legittimità agli occhi dei suoi abitanti, oltre che poco credibile per il resto del mondo. Un’Europa che predica maggiore integrazione e consolidamento politico, mentre ri-nazionalizza di fatto i suoi più gravi problemi.
L’Eurozona, signore e signori, rimane presa nelle maglie di una crisi esistenziale, totalmente indipendente – permettetemi di aggiungere – dalla Grecia; una crisi che si aggrava. Questa è una sfida per tutti noi: non possiamo immaginare di affrontarla semplicisticamente, né con l’ortodossia fiscale, né con lo stimolo keynesiano*. Concentrarsi nello sterile dibattito sull’alternativa fra ridurre i deficit di bilancio, o lasciarli crescere entro limiti ristretti (e parliamo di paesi che non hanno una banca centrale) è pericoloso, oltre che ozioso. Per questo credo che la rissa tra la Francia e Bruxelles, o Roma e Bruxelles, sui dettagli dei loro bilanci, su quanti decimi di punti percentuali debbano essere tagliati o meno, è lontana anni luce dal nucleo del problema.
È d’altro che abbiamo bisogno: una logica diversa, una riarticolazione più razionale delle istituzioni esistenti per attaccare il problema alle radici. Mentre la dinamica di deflazione da debito distrugge le risorse per una potenziale prosperità europea, i governi sono impantanati in falsi dilemmi:
- fra stabilità e crescita;
- fra austerità e politiche espansive;
- fra l’abbraccio mortale banche insolventi - paesi insolventi, e una auspicabile ma indefinita – e sempre rinviata – Unione Bancaria;
- fra il principio di perfetta separabilità dei debiti, paese per paese, e la necessità di convincere i paesi in surplus a finanziare i deficit altrui;
- fra sovranità nazionale e federalismo.
Queste scelte falsamente diadiche imprigionano il dibattito e immobilizzano i governi. Sono la causa dell’attuale grave delegittimazione del progetto europeo. E rischiano di produrre un pernicioso difetto democratico in tutto il continente: i soli ad approfittarne saranno i nazionalisti, i populisti, i separatisti, gli anti-europei. O i nazisti, come da noi Alba Dorata.
Sono consapevole che in questo magnifico paese, patria di due brillanti “Marii” [1], dire queste cose proprio appena dopo il lancio del QE, rasenta la blasfemia. Il QE è qui fra noi e un’aura di ottimismo aleggia sul suo capo. A rischio di sembrare un guastafeste (come spesso mi accusa mia figlia), permettetemi di dire che ho difficoltà a immaginare che l’allargamento della base monetaria possa aumentare gli investimenti privati verso le attività produttive, stante l’attuale quadro – molto frammentato – della moneta unica.
Gli effetti del QE in questa direzione si sono mostrati mediocri, anche in economie solide ed omogenee come il Giappone, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna. È inevitabile che non vada meglio in un’Eurozona frammentata, nella quale gli acquisiti di assets fatti dalla BCE non sono neppure proporzionali agli output gap, e interessano economie nazionali attraversate da potenti spinte deflazionistiche. Temo molto che la dissociazione tra base monetaria e offerta monetaria, che è il tallone d’Achille di tutti i QE, produrrà nel caso europeo effetti ben peggiori che in Giappone, negli Stati Uniti o in Inghilterra.
Il caso tedesco è un buon esempio per chiarire questo punto di vista. Nel 2015, le emissioni totali di titoli di stato saranno limitate a soli 140 miliardi di euro, gentile concessione del governo federale per ridurre l’indebitamento nazionale. Parallelamente, la BCE si è impegnata ad acquistare titoli per 160 miliardi, sempre sul 2015. E nello stesso tempo, le banche tedesche devono aumentare le loro riserve per circa 20 miliardi (come previsto dalle autorità di regolazione bancaria). Per farlo, possono utilizzare solo fondi ad alta liquidità, vale a dire i titoli di Stato. Questo genera una domanda aggregata strutturale di titoli per almeno 180 miliardi per il 2015, ben al di là dell’offerta.
In questo contesto, le istituzioni finanziarie tedesche non hanno nessun interesse a vendere i bund: ne hanno bisogno, con i rendimenti relativamente elevati che generano, per soddisfare i requisiti normativi loro imposti.
È prevedibile che i prezzi dei bund, indipendentemente dalle scadenze, risaliranno rapidamente verso il massimo fissato dalla BCE; i differenziali di rendimento degli altri paesi dell’Eurozona (gli “spreads“) precipiteranno anche in assenza di una ripresa basata su investimenti industriali in paesi come Spagna e Italia; e i prezzi delle azioni saliranno a livelli che già in passato si sono dimostrati insostenibili.
L’idea che questo tipo di inflazione sui prezzi dei titoli contribuisca a mettere in circolo risparmio, e a trasformarlo in investimenti industriali, non regge. Non regge né se si guarda a quanto accaduto nei paesi che hanno spinto a fondo sul QE e neppure se si considerano le leggi di base della macroeconomia.
Insomma, anche se la BCE sta facendo del suo meglio – nel quadro del mandato che le è stato assegnato – questo ‘meglio’ non sembra che basti. Ci vuole qualcos’altro. Permettetemi di disegnare i possibili contorni di questo approccio.
Volendo dargli un nome, parlerei di un processo di Europeizzazione Decentralizzata. Per dirla in poche parole: dobbiamo simulare una governance federale dell’euro senza federazione, senza perdite ulteriori di sovranità nazionale, e nel quadro dei trattati esistenti.
Il continente è oggi incagliato in un falso dilemma. Da una parte c’è chi crede – i più – che l’Europa sia sulla giusta strada, che stiamo uscendo dalla crisi. Che le politiche economiche applicate stiano funzionando. Non è il mio punto di vista. L’altro corno del (falso) dilemma è l’idea che l’unica alternativa sia una federazione europea. Non credo che quest’ipotesi sia percorribile, e neppure auspicabile. Per fortuna esiste una terza opzione, quella che chiamo l’Europeizzazione Decentralizzata.
L’idea è di europeizzare tre dei quattro principali pilastri delle nostre politiche economiche: il settore bancario; una parte del debito pubblico; gli investimenti aggregati (tramite la Banca Europea per gli investimenti), e quindi lanciare un programma di lotta alla povertà.
Se europeizzeremo questi settori, i governi nazionali potranno gestire dei bilanci in modo equilibrato, senza troppe difficoltà, anche in caso di bilancia dei pagamenti esteri negativa (per esempio la Grecia o il Portogallo). Perché se gli investimenti aggregati, le turbolenze bancarie, una parte del debito pubblico, un programma di assistenza alimentare sono europeizzati, allora i governi nazionali possono assicurare bilanci in equilibrio. E nessuno si preoccuperà di sapere se la Grecia o il Portogallo avranno un’eccedenza nelle partite correnti con la Germania (proprio come accade negli Stati Uniti, dove nessuno sa, o si prende la briga di sapere, se il Nuovo Messico ha un deficit nelle partite correnti con il Texas).
Poiché il tempo è limitato, permettetemi di dare un solo esempio di questo processo di Europeizzazione Decentralizzata. Fra i quattro settori da trattare a livello continentale (debito pubblico, investimenti, sistema bancario e contrasto della povertà) mi limiterò agli investimenti. L’idea è semplice:
- L’Europa ha assoluto bisogno di investimenti produttivi, su larga scala.
- In Europa abbonda il risparmio. C’è troppa paura di investire in attività produttive, si teme che la domanda aggregata sia insufficiente ad assorbire volumi di produzione eccessivi.
- La BCE vuole comprare assets di alta qualità, per arginare le aspettative deflazionistiche.
- La BCE preferirebbe non essere costretta ad acquistare titoli tedeschi, italiani o spagnoli: per le ragioni già menzionate, e per non essere accusata di “favoritismi nazionali”.
Ecco cosa potrebbe fare la BCE per raggiungere il suo obbiettivo (superando sia il suo ‘problema operativo’ che la ‘preoccupazione macroeconomica’):
- La Banca Europea per gli Investimenti (BEI) dovrebbe essere autorizzata a lanciarsi in un Piano per la Ripresa paneuropeo, basato sugli investimenti, dell’ordine di circa l’8% del PIL dell’Eurozona: un piano orientato su progetti infrastrutturali a larga scala. L’EIF (European Investment Fund), sua propaggine, si concentrerebbe sulle creazioni d’impresa, sulle PMI, sul settore dell’innovazione tecnologica, sulla ricerca sulle energie rinnovabili, ecc.
- Da decenni la BEI emette titoli per finanziare investimenti, al 50% dei costi globali dei progetti finanziati. Dovrebbe adesso emettere titoli per assicurare il finanziamento totale del Piano per la Ripresa paneuropeo, cioè instaurare la convenzione che il 50% dei fondi provengano dagli stati.
- Per proteggere i titoli BEI da tassi d’interesse troppo elevati (il rischio intrinseco in emissioni a larga scala di questo tipo), la BCE dovrebbe annunciare la disponibilità ad intervenire sul mercato secondario, comprando titoli BEI in modo da mantenerne i tassi allineati ai livelli attuali (e cioè molto bassi).
Il merito principale della proposta è questo: orientare l’azione di QE della BCE verso l’acquisto di un solo tipo di titolo. Vale a dire titoli sicuri, non tossici, che non sono ‘eurobonds’, emessi dalla BEI per conto di tutti gli stati dell’Unione Europea. In questo modo svanirebbe la ‘preoccupazione operativa’ dalla BCE sulla scelta dei titoli nazionali da acquistare. Inoltre questa forma di QE si tradurrebbe direttamente in investimenti produttivi, invece di finire in rischiosi strumenti finanziari [2].
L’obiezione più immediata è: ce la farebbe la BEI a trovare progetti – dell’ordine delle centinaia di milioni di euro ciascuno – per arrivare a 200 miliardi l’anno? Credo di sì, se ci proiettiamo su scadenze più lunghe. Esistono progetti validi e ambiziosi, che coinvolgono tutto il continente (penso ad una Unione europea delle energie rinnovabili, o all’Unione digitale), che offrirebbero utili opportunità alla BEI. La BEI potrebbe rilanciare anche molti progetti infrastrutturali moribondi o sospesi da anni a causa degli esausti bilanci nazionali. L’operazione sarebbe molto più facile da parte di una BEI coperta dalla BCE sul mercato dei titoli. Alleviando il fardello che grava sui bilanci nazionali, sarebbe possibile rilanciare gli investimenti pubblici, senza creare nuovo debito o trasferimenti fiscali, incitando anche i privati a lanciarsi nel processo.
Un piano per la Ripresa europeo di tale ampiezza avrebbe anche il merito di dimostrare che la BEI ha grandi potenzialità (finora inutilizzate):
- giocare un ruolo di primo piano a livello macroeconomico;
- ridurre il rischio sugli investimenti e proteggerlo da fattori esogeni;
- contenere le incertezze sui rendimenti dei progetti che finanzia, per semplice effetto di scala, poiché agirebbe a livello continentale.
Conclusione
La prosperità futura dell’Europa dipenderà da quanto sapremo trovare, nella crisi dell’euro, una opportunità per costruire gli Stati Uniti d’Europa. Se saremo meno ambiziosi, credo sia inevitabile una frammentazione – e prima o poi un collasso – della moneta unica (come Nicholas Kaldor aveva pronosticato nel 1971) e la disintegrazione dell’UE, con conseguenze pesantissime per gli europei.
E se una federazione avrebbe probabilmente prevenuto la crisi, non mi pare oggi una soluzione praticabile. Perché se c’è un effetto indiscutibile di questa crisi, è il risveglio degli orgogli nazionali, che rendono politicamente impossibile un’unione più avanzata – almeno per adesso. Le attuali ‘difficoltà’ che incontriamo all’Eurogruppo, le situazioni di stallo, altro non sono che il riflesso di divergenze politiche create dal continuo incedere della crisi economica.
Sono venuto oggi – in questo magnifico luogo – a dire che la crisi attuale dell’Europa può essere affrontata utilizzando in modo intelligente le istituzioni attuali, estendendone il raggio d’azione, nel rispetto dei trattati e delle regole esistenti. Ho illustrato un esempio di come quest’approccio può essere tradotto in pratica, con un investimento aggregato su scala continentale. La proposta di una collaborazione BEI-BCE (nella quale la BCE pratica Quantitative Easing acquistando titoli della BEI per finanziare progetti di rilancio basati sugli investimenti) dimostra che l’Europa è perfettamente in grado di mobilitare le istituzioni esistenti, europeizzare l’investimento aggregato, e rilanciare l’economia – senza che la Germania finanzi direttamente questo progetto, e senza che i bilanci nazionali vedano crescere i loro deficit.
Abbiamo, di fatto, la possibilità di stimolare un New Deal europeo, senza ricorrere ad una tesoreria federale, senza trasferimenti fiscali interni, senza nuove istituzioni. In questo modo le nazioni più ricche, in primo luogo la Germania, non avranno bisogno di pagare un solo euro per finanziare questo programma. Ma sarà impossibile attuarlo senza il ruolo-guida dei paesi in surplus, come la Germania.
Nei primi anni ’50, gli Stati Uniti riavviarono l’economia europea con il Piano Marshall. Il costo totale per i contribuenti americani equivalse al 2% del PIL (soldi ben spesi, anche dal punto di vista degli americani). Il New Deal europeo non costerà nulla alla Germania, ai Paesi Bassi, ecc. Nulla, perché sarà finanziato tramite emissione di titoli BEI; questi titoli contribuiscono, di fatto, a rastrellare la liquidità in eccesso nel settore finanziario tedesco, permettendo ai rendimenti dei fondi pensione tedeschi di tornare in territorio positivo.
Immagino una Germania capace di guidare il resto d’Europa su questa strada, vantaggiosa per tutti. Direi che un progetto di tale portata, un tornante storico per i prossimi decenni, potrebbe portare il nome di ‘Piano Merkel’. Un progetto che sanerebbe inutili divisioni fra le nazioni europee, e darebbe invece una forte spinta all’integrazione Europea.
Ho parlato oggi di un solo esempio di Europeizzazione decentralizzata, quello riguardante l’investimento aggregato. Soluzioni simili esistono per integrare a livello continentale parte dei debiti nazionali, unificare coerentemente i nostri settori bancari, per combattere povertà ed esclusione sociale. Tutte praticabili senza trasferimenti fiscali, senza spesa in deficit, senza che la Germania debba pagare il conto, e senza perdite – soprattutto – di sovranità nazionale. [3]
Permettetemi di concludere su un punto che mi sta particolarmente a cuore. Dobbiamo smettere di pensare alla ripresa europea come un gioco a somma zero, dove gli interessi di un paese sono soddisfatti a scapito di quelli di un altro. L’Europa ha un immenso potenziale di sviluppo che richiede, per essere attuato, un immediato cambiamento di paradigma entro le regole ed i trattati esistenti. La nostra generazione ha il dovere di fare questo cambiamento, perché le generazioni future possano dire che abbiamo lasciato loro un’Europa davvero unita. Un’Europa di prosperità per tutti, nella quale essere greco, italiano o tedesco è più un riferimento culturale che un dato politico significativo.
Note
[1] Mi riferivo qui a Mario Monti (che era sulla stessa tribuna)e, naturalmente, a Mario Draghi.
[2] Vale la pena di precisare che il prestito da parte della BEI non ha conseguenze sul piano delle regole fiscali europee. Non è iscritto a bilancio come nuovo debito, né come deficit per nessuno degli stati membri. Questo significa che è possibile finanziare nuova spesa pubblica senza intaccare l’efficacia fiscale dei singoli paesi.
[3] Molte delle idee qui esposte provengono dalla Modest Proposal for Resolving the Euro Crisis, i cui autori sono Yanis Varoufakis, Stuart Holland e James K. Galbraith.
* qui Varoufakis sottointende “stimoli basati sui bilanci nazionali” visto che nel resto dell’intervento propone invece uno stimolo finanziato attraverso la Banca Europea degli Investimenti e l’intervento della BCE, ndr.
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