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Premiato dal pubblico del Sundance l’anno scorso, parzialmente snobbato dall'Accademy e tratto dall’autobiografia del giornalista e poeta Mark O’Brien, morto a 48 anni dopo aver passato gran parte della sua vita in un polmone d’acciaio causa polio contratta da bambino, The Sessions si confronta con un tema scomodo e ancora disturbante: il sesso dei disabili. O, se preferite, il diritto al sesso dei disabili. E lo fa senza lanciare proclami, e senza ergersi a opera-manifesto. Non si fa bandiera di nessuna rivendicazione, si limita a raccontare la storia di O’Brien e della sua (sofferta) decisione di avere una vita sessuale. E lo fa magnificamente, con intelligenza, ironia e coraggio. Tant’è che la sceneggiatura dovrebbe diventare oggetto di studio nelle scuole italiane di cinema. I dialoghi tra Mark e l’amico prete sono magnifici, lo stesso quelli con Amanda, badante e suo primo amore.Il tutto servito in una ricostruzione minimalista del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta di una California, da tempo immemorabile, terra di ogni sperimentazione sessuale (e qui siamo a Berkeley). E quindi credete che non ci sia una risposta e una soluzione ai bisogni di Mark? E infatti, ecco spuntare una sex therapist, no, non una sessuologa, no, non una terapeuta di quelle che curano attraverso la conversazione e l’analisi. No, la sex therapist è una che insegna ai principianti come si fa l’amore, andandoci a letto.Nell’incredibile California quindi, non solo c’è la professione della sex therapist, ma anche quella della sex therapist specializzata in disabili gravi. Sicché, quando sullo schermo si materializza Helen Hunt, disposta (a pagamento e in un numero limitato di sedute: sei) a insegnare il sesso a Mark e praticarlo con lui, restiamo un attimino stupiti di come la liberazione sessuale anni Sessanta-Settanta sposata alla cultura dei diritti delle minoranze, sia arrivata così lontano, creando specializzazioni fino a prima impensabili. Ora, il film è ricchissimo di testi e sottotesti, di quelli che ti pongono di fronte a questioni non del tutto inutili, anzi, però è chiaramente figlio della cultura americana del “puoi avere tutto quello che vuoi, basta perseguirlo con tenacia”, e difatti Mark raggiunge, pur nelle condizioni di disagio estremo in cui si trova, l’obiettivo che si era prefissato. Siamo, quindi, di fronte all’ennesima versione-reincarnazione del Sogno Americano, Mark è l’ennesimo American Dreamer, e a svelarlo è il tono ottimistico e de-problematizzato della seconda parte del film. Vorremmo tanto crederci, insomma, ma, da cinici europei, proprio non ci riusciamo.John Hawkes domina il film. La prima volta che l'ho visto me ne sono innamorata: timido, allampanato, con barba incolta, vendeva scarpe nel film d’esordio della videoartist Miranda July, Me and You and Everyone We Know, nel lontano 2005. Una presenza sfuggente, di quelle che ti vien da dire “Interessante, io questo qui l’ho già visto da qualche parte, ma dove esattamente?” Di film in film, questa presenza si è addensata in ruoli sempre più visibili: protagonista in film meglio distribuiti e premiati (Un gelido inverno) e The Sessions è, in questo senso, il film della conferma, che ha reso finalmente celebre quest’attore ossuto, alla soglia dei cinquanta, schivo ma con uno sguardo penetrante, di quelli che ti fanno risistemare sulla sedia se li incroci. Ottima anche l'interpretazione di Helen Hunt (nominata a un Oscar nella categoria Attrice Senza Speranza Ma C’era Un Posto Libero) e di William H. Macy perfettamente a suo agio con una pettinatura improbabile, grandissimo come saggio prete irlandese che capisce che le regole di Santa Madre Chiesa ogni tanto possono e devono essere infrante. O quantomeno, aggirate.voto: 7,5
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