Spense la televisione e ripose la cassetta sul tavolino. Era ancora presto, aveva ancora tempo per rimettere i pensieri al proprio posto prima che la porta di casa fosse nuovamente aperta.
Passò davanti al lettore dvd e al computer, e si sentì bene, per la prima volta in quella giornata, al pensiero di non aver buttato via il videoregistratore in tutti quegli anni. Pensiero sciocco, meditò, rallegrarsi di qualcosa del genere. Ma non permise al ragionamento di farsi strada in lui. Attraversò il corridoio. Andò in cucina. Passò in rassegna i cataloghi della moglie e tornò nel soggiorno. Per molto tempo – per più di due anni – non era andato in malattia. A forza di non ammalarsi si finisce per dimenticarsi di averne il diritto, aveva pensato prima di prendere il telefono e chiamare al lavoro. Ma una volta a casa, il pomeriggio successivo, aveva cominciato a sentirsi male per davvero. “È tutto nella tua testa” gli era stato detto dalla moglie quando le aveva accennato alla cosa. Ed era vero. “È tutto nella nostra testa” aveva confermato lui, senza però parlare. E in quella testa aveva passato le ore restanti.
Aveva preso due giorni. Il primo era scivolato via senza fare niente, assolutamente niente tra il soggiorno e la camera da letto. Niente. Neppure pensare.
Il secondo era distillato con lentezza dalle macerie di una noia priva di idée e gli si era irrigidito davanti tutto a un tratto, costruendogli addosso qualcosa, come un suono cupo e basso, che non riusciva a spiegarsi.
Era stato con quel qualcosa a vibrargli attorno che si era sdraiato sul divano e aveva ripensato alla videocassetta.
La moglie l’aveva conosciuta al matrimonio di un amico. Se glielo avessero chiesto – e alle volte era capitato o capitava che qualcuno lo facesse – avrebbe risposto che tutta la supposta indeterminatezza della vita stava racchiusa lì.
Mai avrebbe pensato di sposarsi. E se per caso – se per errore – fosse successo, mai avrebbe pensato di conoscere la sua futura moglie ad un matrimonio. Aveva riassunto l’intera vicenda in poche frasi, che di tanto in tanto ripeteva in occasione di cene con amici. Più una cosa è prevedibile e più evitiamo di pensarci. Più evitiamo di pensarci e più ci pare impossibile che accada. Più ci pare impossibile che accada e più ci stupiamo dopo che è accaduta. Più accade e più diviene normale vederla accadere. Eccola qua tutta l’imprevedibile vita di un uomo: così–maledettamente–prevedibile.
Si avvicinò al frigo e prese la bottiglia di vino bianco.
Ma non voleva bere. Non voleva trasformarsi in uno di quei personaggi da romanzo che vivono col bicchiere sotto il divano e fissano con occhi rabbiosi moglie e figli di rientro a casa. E non voleva neppure farsi trovare alticcio sul bordo di quel pomeriggio, con le pupille liquide e un’espressione di stupida sorpresa a pendergli dalla bocca.
“Papà ha approfittato di una giornata di malattia per ubriacarsi, tesoro” avrebbe detto sua moglie, forse, spingendo Marco verso il corridoio. “Vai in camera e cerca di non farci caso.”
Questa era un’altra di quelle cose a cui costringeva una famiglia…
“Ma cosa ti ha preso?”
“Niente.”
“Niente?”
“Avevo voglia di bere.”
… perdere il diritto di passare una di quelle giornate, come alle volte avveniva ai tempi dell’università. Una di quelle in cui si decide di lasciarsi andare, e quietamente, e giustamente, e dolcemente si scivola simili a zattere in uno stagno di pacata ubriachezza. E nell’incanto di quello stagno si va incontro alla sera.
Aprì la bottiglia e si versò due dita di vino bianco nel bicchiere. Erano le quattro di pomeriggio.
Considerò per l’ennesima volta la situazione e diede un primo sorso.
Il figlio era arrivato un anno dopo il matrimonio. Insieme alla stabilità sul lavoro, insieme alla temporanea sospensione delle domande, e all’andare avanti perché questo si deve fare e il resto in fondo non conta. “Questo è quello che si fa da sempre” aveva detto suo padre il giorno in cui lui gli aveva dato la notizia. “Un uomo deve saper nutrire la propria vita con ingredienti ogni volta diversi.” E lì per lì quelle parole avevano avuto un senso.
Lì per lì.
Adesso, tredici anni dopo e senza più un padre con cui poterne davvero parlare, si chiese se un giorno avrebbe detto quelle medesime cose anche a suo figlio. Si domandò se funzionava così anche per le donne – se era così anche per sua moglie – e se sì, si chiese quali fossero questi ingredienti. Si domandò di cosa si nutrisse davvero la vita di una donna. Il tempo non spiegava certe cose. Non a un uomo. Il tempo ingigantiva il mistero mentre la promessa della maturità si faceva sempre più illusoria. Gli ingredienti forse erano lì. Ma mancavano le ricette, mancavano i cuochi di cui potersi fidare.
Finché si attraversava una linea. Quando alle volte si spingeva sul fondo dei suoi pensieri, riusciva ancora a distinguerla – con gli anni si era fatta più chiara, come volesse farsi vedere dopo essersi a lungo nascosta – superata la quale il mondo si faceva estraneo. E un pezzo alla volta, lo diveniva sempre più.
Tornò in soggiorno. Si accomodò nuovamente sul divano. E nuovamente prese in mano la custodia della cassetta che aveva visto nel pomeriggio.
Ecco, questo è quello che avrebbe potuto dire a suo figlio. Che alle volte, alle volte un uomo passa attraverso momenti in cui non si ricorda più come dovrebbe essere la vita. O meglio, ancora, alle volte un uomo si ricorda – si ricorda esatto, questa era la parola – di non sapere più come dovrebbe essere la vita. Meglio ancora: alle volte un uomo realizza di non averlo mai saputo, come si vive.
Dette un altro sorso al vino e studiò il bicchiere in controluce. Voleva tenere a bada i ragionamenti ma al tempo stesso permettersi il lusso di lasciarli andare, almeno sullo scorcio di quel pomeriggio. Vedere fino a che punto erano in grado di spingersi e poi richiamarli indietro un attimo prima che si perdessero. Che se ne andassero per un po’, che fossero sciolti – che fossero come i cavalli che aveva visto quindici anni prima in Patagonia, li aveva spiati correre a cuore pieno, nella luce e nel sudore, come mai avrebbe pensato che un essere vivente potesse fare.
“Ecco figliolo” avrebbe potuto dire “si vive soprattutto per momenti come quello.” E poi anche per tutto il resto per carità, ma senza momenti così, il resto poco importa. “Senza momenti così, certe linee divengono tutto ciò che ci rimane nella vita. E su quelle linee, alle volte, si finisce per restarci.”
Ma si accorse che anche quel pensiero stava perdendo intensità. Gli stava scivolando nella testa, e così facendo si stava trasformando in qualcos’altro. “Nuvole, non cavalli” ragionò. “Che si muovono e cambiano forma quando sembrano averne raggiunta una.”
E sul quell’una si accorse di essere a casa, in un pomeriggio che stava finendo, con un bicchiere tra le dita e una famiglia in arrivo per l’ora di cena. E realizzò di sentirsi bene.
Arrivò il figlio.
Entrò, e accese la luce, e si stupì di trovarlo seduto lì, immobile, sul divano. Disse “Ciao pà.”
“Ciao campione”
“Come va?”
“Bene. Gli allenamenti?”
“Solito.”
Il figlio posò la borsa e gli si sedette accanto. Vide la cassetta sul tavolino. Vide il bicchiere vuoto di fianco.
“Cos’è?”
“Ho bevuto un bicchiere di vino.”
“Non quello. La cassetta.”
Lui sorrise e si sollevò sul bordo del divano, e raccolse la cassetta e il bicchiere, e disse “lo sai che da giovane suonavo in un gruppo.”
“Lo so…”
“Cosa c’è?”
“Nulla.”
“Allora?”
“Secondo mamma non valevate un granché.”
Lui scosse la testa. “La mamma di musica non ne ha mai capito nulla.”
“Questo è e-s-a-t-t-a-m-e-n-t-e quello che dice anche lei di te.”
“Allora facciamo così” disse. “Adesso le prepariamo la cena, poi ne parliamo insieme a tavola.” Si alzò e si diresse in cucina.
Il figlio lo seguì. “Dicevo davvero comunque. Cosa c’è nella cassetta?”
“Ah, la cassetta.” Se ne era dimenticato. Se ne era sinceramente, e completamente dimenticato. Tornò in soggiorno, la prese. “In questo pezzo di preistoria ci sono le riprese di alcuni concerti e l’inizio di un viaggio che feci in Argentina.”
“E la mamma dov’era?”
Lui era andato di nuovo in cucina, stava togliendo alcune padelle da un mobile. “La mamma a quei tempi non era ancora entrata in scena” disse appoggiando una cipolla sul tavolo e riempiendosi di nuovo il bicchiere. “Io intanto conquistavo i cuori femminili di tutto il mondo cucinando negli ostelli.”
“Questa poi…” disse il figlio sedendosi su una sedia.
“Cosa fai?”, disse lui senza voltarsi. “Metti su un pò di musica, e torna qui, e dammi una mano. Sono anni che non cucino.” Cominciò a tagliare la cipolla. “Facciamo una sorpresa alla mamma.”
Il figlio andò in soggiorno e accese la musica. Poi tornò in cucina, e avvicinandosi al padre disse “sicuro che stai bene?”
“Benissimo” rispose lui. E lo guardò a lungo. Lo guardò con intensità. “Vai a riempire la pentola con l’acqua e mettila sul fuoco” disse poi, tornando a tagliare la cipolla. “Un giorno ti farò vedere la cassetta.”
Ma avrebbe voluto dirgli: “vedi, è così: per molti più il tempo passa e meno sono le cose di cui avere paura. Per molti sono più le cose che si temono quando si è giovani di quelle che si temono quando si diventa adulti. Ma non per me.”
“Per me” avrebbe voluto confidargli “è l’esatto contrario.”
Ma si accorse di aver perso l’attimo. Si accorse che anche quel pensiero stava cambiando forma. Stava divenendo qualcos’altro, qualcosa che in quel momento non riusciva a decifrare.
Osservò il figlio mentre accendeva i fornelli e sentì la musica sciogliersi nella stanza e ok pensò, vediamo se sono ancora capace a farlo.
“Adesso stai bene attento” disse sentendoselo di nuovo accanto.