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Vendere il tuo cuore

Da Marcofre

Quando si inizia a scribacchiare, magari sull’onda dell’entusiasmo, dello sprone di qualche amico o insegnante, si crede che sia possibile cavarsela a buon mercato. Anche se si è letto un po’, quelle frasi, le storie, sono così semplici: come bere un bicchiere d’acqua.

Per molti è così e lo sarà per sempre. Bene: fanno parte di quel 90% di autori che non pubblicheranno mai niente di interessante o degno di una qualche attenzione. Dopo qualche anno forse, elaboreranno la teoria di essere vittima di un enorme complotto. Editori, Amazon, Web, il mondo intero insomma, ha dichiarato loro guerra, per distruggere il loro talento.
La percentuale che ho usato prima (90%), è frutto di un momento di ottimismo, sia chiaro. Temo che sia molto più alta.

La verità è più banale. C’è una frase di Scott Fitzgerald che parla esattamente di “vendere il proprio cuore”. Secondo lo scrittore statunitense, se si scrive sul serio l’impegno deve essere spaventoso. Quello che si deve fare è stare alla larga da tutto ciò che è superficiale, che sfiora, e puntare invece a vendere il cuore. Né più né meno.
Lui parla di emozioni, ma non credo di compiere un’operazione di travisamento se interpreto il suo pensiero scrivendo invece: vita.

Il difetto di tanta narrativa è che i personaggi se ci sono (e non basta un nome e cognome per fare un personaggio), paiono farfalle. Svolazzano.
Anche quando sono alle prese con qualcosa di materiale e duro, paiono creature di pura luce che attraversano in modo ieratico il mondo.

Al principio è inevitabile scrivere così. Se si prende in mano il pennello, o meglio una matita, il risultato non potrà essere niente di straordinario. Forse si può già notare al di là degli sgorbi qualcosa che può essere definito “talento”; ma è raro.
Dopo un po’ di tempo, se costui o costei ha sale in zucca e sensibilità, si rende conto che manca qualcosa.

Di solito questo deficit appare evidente proprio a chi ha quella cosa poco democratica che risponde al nome di talento.
Magari incappa nei racconti di Carver, oppure di Flannery O’Connor; lo fa perché ha sentito dire che rispetto al romanzo, sono più facili. D’un tratto, ha una sensazione che gli si conficca nel cuore come una scheggia, e sanguina.

Vede le parole, legge di questi personaggi che non fanno niente di eccezionale (non salvano il globo da un’epidemia: ma ricevono in casa un rappresentante di aspirapolvere). Eppure sente, respira la vita. E c’è un peso, una vastità dentro che o si riesce a far propria in qualche modo, oppure non c’è niente da fare.
Sono solo frasi, eppure rivelano parecchio di più. Se si prendono le parole una per una, che hanno di tanto eccezionale?

Poco o nulla.

C’è un prezzo da pagare. Dopo la sensazione di cui ho parlato poco prima inizia a farsi strada l’idea che per ottenere certi risultati (vale a dire una narrativa che duri), è necessario pagare. Come? Quanto? Da qui in avanti ci saranno letture più consapevoli e attente. Riflessioni. Senza fretta, ci si avvicinerà a qualcosa che per comodità (ma forse è il suo vero nome), si potrebbe definire rivelazione.

Dopo che cominciamo a fare conoscenza con questa sorta di rivelazione, diventa difficile far finta di niente. È sempre possibile certo. Però si comprende che si è su uno spartiacque, e occorre una decisione.
Vendere il cuore, oppure fingere. Andare a fondo o restare sulla superficie. Parlare di vita, oppure fare una parodia di vita.


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