Santo, agg.
Lo so che, da ateo ostinato, mi dovrei esimere da questo delicato argomento, seguendo l’antico adagio:
scherza con i fanti e lascia stare i santi
Però devo ammettere che sono abbastanza stanco di parlare sempre di mezze figure – da Renzi in giù – e ogni tanto sento il bisogno di affrontare argomenti un po’ più elevati. Poi la giornata del 27 aprile, con due papi vivi che canonizzano due papi morti, è uno di quegli eventi che coinvolgono in qualche modo tutti, anche noi che non crediamo.
Ovviamente mi scuso in anticipo con chi invece crede e potrà considerare queste mie riflessioni banali o peggio irriverenti. Vi assicuro che non è così: non sono anticlericale, anche se non amo le gerarchie vaticane – come non amo altre strutture di potere altrettanto sclerotizzate – e anzi guardo con interesse alla vostra cultura che è una di quelle che ha contribuito a fondare la nostra civiltà.
Ho deciso di partire dalla parola santo perché ho l’impressione che queste due canonizzazioni segnino una novità profonda nella vita della chiesa cattolica. Roncalli e Wojtiyla meritano di essere venerati dai cattolici come santi? Ho qualche dubbio.
Ovviamente non voglio mettere in discussione l’iter che ha portato a questa decisione, non ne ho la competenza, ma soprattutto non ne ho il diritto, essendo completamente al di fuori di quella comunità. Ho l’impressione però che nella scelta di canonizzare queste due figure, tra l’altro accelerando di molto i tempi lunghi solitamente necessari per questo tipo di decisioni, abbiano pesato fattori che non erano stati valutati in altre occasioni, sottovalutandone altri. Certo so che per entrambi ci sono agli atti le guarigioni miracolose – un elemento da cui non si può prescindere evidentemente – ma oggettivamente né Roncalli né Wojtyla sono diventati santi per questi meriti.
Di Giovanni XXIII viene messa in risalto la capacità di capire i tempi nuovi e la feconda intuizione del Concilio, vengono valorizzati i testi, le encicliche famose, viene enfatizzato il suo essere uomo di pace in un’epoca in cui la guerra era qualcosa di imminente, percepita e temuta dalle persone. Giovanni Paolo II è ricordato per il suo apostolato planetario, per i viaggi, per la capacità di mettersi in comunicazione con le generazioni più giovani. Si tratta in sostanza di due persone che, in modo diverso, hanno fatto la storia, non solo della chiesa – il ruolo del papa polacco nella fine dei regimi dell’Europa orientale è stato costante, per quanto sempre non lineare – che la chiesa vuole ricordare nel modo più sacro che quell’istituzione prevede, ossia proprio la canonizzazione.
Sono due santi di tipo nuovo, in cui il miracolo conta meno e conta di più l’azione, l’opera di apostolato, anche la forza della comunicazione. Insomma non si tratta di due santi che si mettono l’aureola e trovano posto tranquillamente nel calendario. Nel caso di Wojtyla si tratta poi di un processo di canonizzazione che ha avuto un aspetto democratico e dal basso – scusate gli anacronismi, ma mi servono per farmi capire – assolutamente inedito. Quanto ha pesato quel grido “Santo subito”, che abbiamo sentito riecheggiare tra i fedeli di ogni angolo del mondo, già nel momento della sua morte? Io credo molto.
Per un curioso paradosso credo che gli storici dovranno ricordare Benedetto XVI come un radicale innovatore della chiesa, nonostante non ne abbia certo né il physique du role né la fama. Eppure il rigido – tedesco – prefetto della congregazione della dottrina della fede, divenuto papa, ha fatto due cose non tradizionali, che hanno segnato il suo pontificato e rappresentano uno spartiacque nella storia della chiesa: si è dimesso e ha voluto far diventare santo il suo predecessore, saltando molti dei passaggi previsti, in qualche modo inventando un “santo contemporaneo”, dettando un nuovo criterio di santità. Mi ha colpito che invece lo storico antagonista di Ratzinger, il cardinal Martini, che è sempre stato considerato il capofila degli innovatori, abbia espresso delle riserve sull’opportunità di canonizzare Giovanni Paolo II. E’ un segno che probabilmente certi passaggi, e certe discussioni, sono un po’ più complicate di come possono apparire da una superficiale indagine giornalistica.
Certo adesso essere santi è oggettivamente diverso da secoli fa. Di un santo del Duecento o del Seicento – per non parlare di quelli dei primi secoli della cristianità, le cui storie sono spesso leggendarie – sappiamo quello che i suoi seguaci hanno voluto farci sapere. Di un santo odierno conosciamo – grazie ai mezzi di informazione – letteralmente vita, morte e miracoli. E, visto che è difficile essere santi 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, emergono delle contraddizioni.
Pensate a chi sarà papa tra cinquanta o sessant’anni. Verosimilmente è un ragazzo – quasi impossibile sia una ragazza – che adesso ha una ventina d’anni; sicuramente ha un profilo su Facebook e probabilmente ci scrive delle stupidate, come tutti i suoi coetanei, che salteranno fuori non appena salirà sul soglio di Pietro. Evidentemente anche l’agiografia deve fare i conti con la società della comunicazione. E probabilmente la chiesa – anche la chiesa “antica” di Ratzinger – lo ha capito, se ha deciso di far diventare santo uno come Wojtyla, un personaggio che ha in sé delle contraddizioni, inevitabili in chi ha avuto responsabilità pubbliche per un periodo così lungo e così travagliato della storia mondiale.
Immagino non sarà mai facile diventare santo. E comunque speriamo che non sia vero anche l’altro vecchio proverbio
passata la festa, gabbato lo santo.