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Verde Mare di Alice Del Corso

Creato il 22 settembre 2012 da Junerossblog

Verde Mare di Alice Del CorsoCarissime lettrici eccoci di nuovo giunte al consueto appuntamento con “Le nuove penne”. Non sentite l’arrivo del freddo? Non viene anche a voi quella voglia di rifugiarsi davanti ad un bel camino acceso in compagnia di una storia d’amore che vi riscaldi il cuore?Allora non c’è nulla di meglio di un raccontino romantico, romantico come quello della nostra autrice di oggi: Alice Del Corso. Parliamo del fatidico colpo di fulmine…ah quanto mi piace…ops… potevo dirlo??..eh eh eh..;) Il racconto parla di Maida, una giovane ragazza che sta affrontando un periodo molto difficile, fino a che non incontra Lui e tutto cambia….Io però non vi dico altro.. lasciatevi trasportare da questa tenera e calda storia d’amore e non dimenticatevi di lasciare il vostro commento!!!;)E..mi raccomando… siate clementi..;) hi hi hi..;)SereJaneP.s. 
Vi ricordo inoltre che noi bloggerine siamo sempre alla caccia di nuove scrittrici in erba, quindi penna alla mano!! Non abbiate timore e inviateci i vostri raccontini! Siamo sempre felicissime di leggerli e di poterli condividere con le nostre amiche!;) LINK
Verde mare di Alice Del Corso
La motovedetta Zeta Due non tardò.
Si accostò alla nave con un brontolio simile al ringhio di un cane stanco, sputando mare e fumo.
Erano in dodici a dover scendere. In cima alla fila, ordinatamente impilate, cassette di frutta e  verdura spruzzavano dolcezza sopra una bolla d’aria insaponata di sudore e petrolio, nella quale erano immersi i passeggeri da almeno un quarto d’ora.
La calura di luglio penetrava impietosa fra le lamiere della vecchia Planasia, che cigolava divertita,
solleticata da un mar ligure piuttosto vivace. Uno dei marinai sorvegliava il portellone che si stava lentamente spalancando. Maida sedeva sulla propria valigia, in fondo alla modesta coda. Sguardo basso, mani in grembo, intenta a torturarsi le dita con quel suo solito modo di fare che tradiva preoccupazione.
Si scostò alcune ciocche bionde dal volto, alzando piano la testa in direzione del potente fascio di luce che la stava abbagliando. Il portellone era finalmente aperto e potevano iniziare le operazioni di sbarco. Si alzò in piedi titubante, e nausea e capogiri ripresero all’istante senza lasciarle tregua.
D’istinto si appoggiò di nuovo alla valigia; l’unica, in mezzo a pile di cianfrusaglie indistinte.
Gli altri passeggeri erano tutti parenti dei detenuti e avevano con sé soltanto modeste borsette, o qualche pacco contenente oggetti personali.
Maida stava per sbarcare in Gorgona, l’isola più piccola dell’arcipelago toscano, e l’unica a ospitare ancora una colonia penale. La nave, non potendo attraccare a causa delle ridotte dimensioni del porto, era costretta a sostare a qualche centinaio di metri dalla costa, dove veniva affiancata da una delle motovedette del penitenziario che provvedevano a scaricare generi alimentari, parenti in visita, e residenti in vacanza. Dopodiché, ripartiva lenta in direzione dell’isola di Capraia, per poi ripassare davanti a Cala dello Scalo soltanto al tramonto.
Maida non apparteneva a nessuna di quelle categorie. Lei era semplicemente un’ospite della famiglia Santini, residente in via del Porto da oramai quattro generazioni.
I Santini erano amici di famiglia ai quali sua madre si era disperatamente rivolta dopo l’ennesimo blackout di Maida, il più terribile. La fila intanto aveva iniziato a scorrere, e uno dopo l’altro i passeggeri salirono sulla motovedetta, aiutati dalle guardie carcerarie. Tutti i carichi vennero lasciati a poppa, così il grande trolley verde bottiglia di Maida fu sistemato accanto a un enorme pacco di farina, e la ragazza fu fatta accomodare sotto coperta insieme agli altri.
Il caldo era insopportabile. Il vestito color panna le si era appiccicato alla pelle, e dalla fronte le colavano pesanti gocce di sudore. Si sedette accanto a un bambino con dei corti capelli neri, che non doveva avere più di tre o quattro anni. Si chiese chi poteva essere suo padre, se una guardia o un detenuto. Ad alcuni di loro mancava poco per tornare a essere liberi, mentre per altri non c’era via d’uscita.
In totale erano trenta, di cui diciotto sopra la cinquantina, due poco più che maggiorenni, e dei restanti, tre erano giovani ergastolani. Maida non riusciva a immaginare quali crimini avessero commesso per essere stati condannati a una pena così estrema, ma la sola idea di saperli liberi a lavorare per l’isola, la inquietava. Avrebbe dovuto trascorrere lì ben due mesi e al solo pensarci, si sentì tutt’a un tratto reclusa esattamente quanto loro.
Una delle guardie ritirò documenti e cellulari di tutti i passeggeri, prima di aiutarli a scendere dalla motovedetta. Vennero sbarcati anche bagagli e provviste, poi si diressero tutti in capitaneria. 

Tranne Maida, che rimase a guardarsi intorno, disorientata. C’era un trampolino di vecchio metallo arrugginito all’entrata del porto, con sopra un gruppo di bambini intenti a tuffarsi divertiti. Lungo il molo, vecchie imbarcazioni cotte dal sole attendevano la prossima pesca a traina, smaniose di cavalcare il mare guidate da uno sgangherato Evinrude quindici cavalli.
Una mano la salutò in lontananza. Una donna sui quarant’anni dai corti capelli rossi stava scendendo a passo veloce la salita di Via del Porto, accompagnata da una ragazzina bionda che non doveva avere più di tredici anni, e da un bambino di qualche anno più piccolo. Avevano tutti e tre una marcata abbronzatura color cioccolato, e l’espressione di chi proviene da un altro pianeta. Il bambino la raggiunse a corsa, guardandola attraverso due splendidi occhi azzurri.
«Sei Maida, vero?» domandò affannato.
La ragazza si limitò a sorridere ed annuire.
«Io mi chiamo Francesco Santini, e lei è la mia sorella Benedetta.≫ disse indicando la ragazzina, che nel frattempo li aveva raggiunti.
«Ciao. » disse la ragazzina. «Io ho dodici anni e lui sei. Sei malata? Mamma ha detto che devi
rimanere un po’ qui perché non stai bene. »
Maida non sapeva cosa rispondere. Non poteva dire a due bambini quello che aveva fatto, si sarebbero spaventati. Anche se parlare non era poi così necessario. C’erano già le pesanti bende color carne strette ai polsi, a dare una chiara idea di ciò che poteva esserle successo.
«Sì, sono stata male, e ora ho bisogno di un posto tranquillo per riposare un po’. »
Romina arrivò sorridente a salvare la situazione, prima che altre domande potessero mettere Maida in imbarazzo.
«Ben arrivata! » esclamò. Aveva una voce squillante e un corpo teneramente paffuto.
Gli occhi erano incorniciati da qualche ruga impertinente incurvata all’insù, per accogliere il sorriso di benvenuto che le stava rivolgendo.
Sorridere di rimando a Maida venne spontaneo, quella donna aveva un umore contagioso.
«Grazie, signora Santini. »mormorò.
«Signora? Ma che signora! Sono Romina e basta! Capito? »
Maida annuì, e la donna si offrì di portarle il bagaglio fino alla casa. S’incamminarono su per la ripida salita di via del Porto, lasciandosi alle spalle il piccolo molo.
«È un piacere averti qui. Vedrai che starai bene.» disse Romina, poggiando per un attimo una mano sulla spalla della ragazza. Maida si ritrasse subito a quel debole contatto. Non era più abituata alle dimostrazioni di affetto. Adesso aveva solo bisogno di ombra, e di acqua. Camminarono insieme su per l’ardua salita fino all’entrata della casa, contrassegnata da un imponente scalino in mattoni arancioni e un piccolo cancelletto di ferro. Il numero ottantuno era appeso un po’ penzolante ad una delle vecchie travi di sostegno, con l’aria di chi doveva aver visto parecchi inverni tempestosi. Il piccolo porticato aveva muretti bianchi, un tavolo con quattro sedie, e un lavandino dal cui rubinetto pendeva un lungo tubo di gomma verde.
Allo stendibiancheria erano appesi parecchi costumi e asciugamani, gli unici indumenti di cui si necessitava su quell’isola. Romina poggiò il pesante bagaglio di Maida con un sospiro, poi si asciugò la fronte e le si rivolse con fare gentile.
«Fà come se fossi a casa tua. La tua stanza è appena si entra sulla destra, in fondo al corridoio. Io vado a preparare il pranzo. »
Era inutile. Maida aveva già deciso che anche quel posto l’avrebbe fatta impazzire e non aveva perso tempo a confidarlo al suo diario. La penna le scivolò capricciosa dalla mano e nel raccoglierla, si accorse di una figura che si muoveva tranquilla nel grande giardino incolto di fronte alla sua finestra.
Era un ragazzo poco più grande di lei. Capelli neri, con qualche ciocca appiccicata alla fronte per colpa del troppo caldo, alto e abbronzato, teneva un tagliaerba in mano ed esplorava i dintorni con estrema precisione, alla ricerca di erbacce da estirpare. Vicino a lui c’era una sentinella intenta a parlare con qualcuno che Maida non riusciva a vedere. D’istinto il ragazzo tirò su la testa e guardò in direzione della finestra. Lei si nascose svelta dietro la parete, ma era quasi sicura che l’avesse vista. Quando poi si affacciò di nuovo, erano spariti, e il pranzo era pronto.
Fantasticò l’intera giornata su quale potesse essere la storia del ragazzo col tagliaerba, fra un bagno di sole e un tuffo dalla barchetta dei Santini in qualche caletta solitaria intorno al porto. Romina era un ottimo pilota, e i bambini si erano divertiti tutto il pomeriggio a fare il bagno e a pescare con la lenza.
Il giorno dopo, Benedetta l’accompagnò allo spaccio, l’unico posto dell’isola nel quale si potessero comprare da mangiare e altre cose utili. Maida si era dimenticata lo spazzolino da denti e ogni giorno alle famiglie residenti veniva anche lasciato un sacchetto nel banco frigo contenente i prodotti dell’Agricola, la piccola azienda locale che impiegava i detenuti nell’attività di produzione di latte e formaggi. Fu quando si avvicinò alla cassa per pagare, che lo vide di nuovo.
La fissava come se riuscisse a scrutarle l’anima.
Gli occhi neri le leggevano dentro carpendo ogni più piccolo e inconfessabile segreto, e d’un tratto lei si sentì nuda. Il ragazzo batté i prezzi sulla cassa senza smettere di guardarla, e a Maida mancò il fiato quando abbassò gli occhi per afferrare una banconota dal portamonete. Nel porgerle il resto, le loro mani si sfiorarono un istante e accadde qualcosa che nessuno dei due si sarebbe mai aspettato. A differenza di un protone e un elettrone che percorrono eternamente la loro orbita senza mai sfiorarsi, loro si erano scontrati innescando una reazione atomica.
Nei giorni seguenti, i loro sguardi s’incrociarono così tante volte, che a Maida sembrò di leggervi dentro tutta la sua storia. Non le importava di quello che poteva aver commesso per finire lì, l’unica cosa che desiderava era conoscerlo. Ma sapeva che sarebbe stato impossibile.
Col passare del tempo, gli sguardi divennero parole, e le parole intenzioni, mentre i giorni passavano fra sale, luce e pagine su pagine di quel diario di gioie e dolori, che Maida riempiva per dare un senso alla sua angoscia.
Finché un giorno, ne lanciò una pagina in quel prato, accartocciata intorno a un sasso.
Temette che il ragazzo non se ne accorgesse, preso com’era dal suo lavoro, ma i suoi occhi la scorsero appena varcata la soglia. Finse d’inciampare e se la infilò in tasca con la velocità di un felino.
Le labbra di Maida si piegarono in un sorriso raggiante, guidato da una nuova adrenalina che le scorreva nelle vene. Le bende diventarono improvvisamente pesanti, così le tolse.
I tagli profondi erano stati ricuciti con cura, anche se in alcuni punti i segni non se ne sarebbero più andati. Le buttò nel cestino come fossero un pezzo di vita da dimenticare. Ne conservò soltanto un lembo, che incollò su una pagina del suo diario come una promessa fatta a se stessa, che avrebbe mantenuto a tutti i costi. Ora le restava solo da aspettare un altro segno, che potesse farle di nuovo credere nel destino.
Aprì gli occhi. Una carezza di vento le alzò un lembo del corto vestito lilla, ma non si preoccupò di riabbassarlo.
Teneva quelle pagine in mano da quando era scesa dall’auto, e aveva finito per stropicciarle.
In poche righe, si era trovata di nuovo catapultata in quel magico e afoso luglio, solo che stavolta da quella nave non sarebbe scesa lei.
L’avrebbe riconosciuta? Il cuore le attanagliò la gola, mentre il vecchio e consumato portellone della Planasia con un tonfo sordo toccò ancora terra, restituendo al porto ciò che restava degli esploratori di un’isola terribilmente magica. Tir e auto scivolarono verso la calura dell’asfalto, mentre una fila di persone s’incamminò verso la stazione degli autobus, e un’altra si sparpagliò in cerca dei parenti.
Due anni di attesa. E di lettere, di promesse. Quando all’improvviso, lo vide.
Il suo voltò saltò fuori dal nulla, come un’apparizione. Il carnato scuro, le grandi spalle disturbate da una consunta sacca da viaggio e quegli occhi, neri e liquidi, come un’anima ribelle rimasta troppo a lungo incatenata.
Anche lui la vide, luminosa come un faro nella notte, e le si avvicinò con passo svelto e sicuro. Ad ogni falcata il cuore di Maida perse un battito, finché anche lei non gli andò incontro.
Si fermarono l’uno di fronte all’altra e si guardarono a lungo, sguardi che si erano cercati in ogni rumore del mare e in ogni tramonto per un tempo che non esisteva più, e adesso potevano tornare a ricongiungersi.
Con una delle sue mani forti, le prese un polso e lo accarezzò con la punta delle dita. A Maida vennero i brividi, e una lacrima le scivolò silenziosa sulla guancia.
«Non mi sembra vero di poterti toccare.» le sussurrò Alessandro, e la sua voce tradì quella profonda emozione che gli occhi avevano sempre celato.
E’ tutto vero, pensò Maida, stringendolo a sé.
Il destino esisteva, e finalmente poteva tenerlo fra le braccia.

Alice Del Corso

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