L’amore, l’amore della vita, come lo immaginiamo? Pulito, per bene, che compensi i nostri difetti e che esalti i nostri pregi, che ci consenta di vivere una vita interessante, di avanzare nella professione e di consolidare uno status sociale magari migliorandolo. Pensiamo in genere a un rispettabile e giudizioso miscuglio di quello che già siamo e di quello che, ragionevolmente, aspiriamo a diventare. Niente di male in tutto questo, infatti così sono, perlopiù, composte le coppie. Non a caso, si dice, ben assortite.
Cosa succede se invece l’amore sceglie come oggetto un cane, una persona che fa la vita d’un cane perché socialmente emarginato – un immigrato polacco – perché personalmente fragile e inaffidabile, un alcolizzato che chiede spiccioli ai semafori? Si programma una sistematica discesa all’inferno in cui, ad ogni gradino sceso, il monito della propria coscienza e il giudizio sociale diventeranno sempre più insistenti, incrinando via via la consistenza di un sentimento, la possibilità di una storia d’amore che diventa l’inverosimile connubbio di una ragazza perbene, subito degradata a “kurwa” (puttana) e Slavek, il polacco ubriaco, il polacco bellissimo delle risse e del malaffare. La coscienza dirà: fèrmati. La comunità dirà: stai impazzendo, finirai male.
Eppure chi dice io nel romanzo d’esordio di Veronica Tomassini, “Sangue di cane” (Laurana Editore, Milano 2010) non solo non si ferma, ma attraversa uno a uno i gironi di una discesa piena di creature così infernali, nella loro sofferenza, nella loro abiezione ed emarginazione, da assurgere immediatamente sulla pagina scritta a epos, un epos dei diseredati, degli ultimi. Un epos che investe anche i luoghi di una Siracusa che potrebbe essere qualsiasi città d’Italia o del mondo: “la panchina che fu di Jurek” , ex camionista morto di alcol e abbandono nel parco luogo di ritrovo e di maledizione per i polacchi, “la casa dei morti”, fatiscente palazzo occupato da larve umane che prostituiscono la carne senza sapere se avranno vita il giorno dopo, “le grotte della balza”, ultimo rifugio per chi non ha più niente, nemmeno le strade della città su cui dormire.
E non si tratta certo di un amore intraprendente, di un amore che afferma, cambia, redime, l’io narrante constata “la propria inutile stucchevole pazienza” davanti ai tradimenti, alle delusioni, allo sperpero di occasioni offerte, davanti all’inesorabile abisso in cui questo “diavolo di un polacco” vitale e dannato non può non continuare a scivolare, nonostante una famiglia, nonostante il serio lavoro di disintossicazione svolto in una comunità, nonostante tutto.
E il lettore non può rimanere folgorato davanti all’affermazione: ”Ricevevo infinitamente di più di quello che davo”. Ma come? Questo è l’amore di cui parla Veronica Tomassini, amore lontanissimo dall’accezione contemporanea di un sentimento in cui affermazione e proiezione egocentrica si dividono il campo, piuttosto amore-pietas, amore trascendenza che sa cogliere il senso anche nell’ordito più sfilacciato e rovinoso. Una parabola cristologica senza consolazione o edificazione, perché l’amore non cura, non cambia, non salva, semplicemente rivela. Per dire tutto questo l’autrice adotta un stile aspro e ricorsivo, in cui certe frasi ritornano come strutture della psiche che parla a se stessa, lasciandosi attraversare dai parlati altri di dialetto e Polacco, oppure frasi che si gonfiano di una retorica precisa e analitica quando proiettano la vicenda privata su uno sfondo sociale allargato. Il ‘tu’ con cui l’io narrante si rivolge a uno Slavek che l’ha ormai abbandonata ha la forza dell’evocazione, la forza di chi è rimasto a ricomporre i pezzi della memoria dopo il disastro, e vede i fatti non nel tempo lineare ma in quello della consapevolezza e della durata dei sentimenti. Un romanzo che nonostante racconti una vicenda singolarissima, come ogni vicenda d’amore appare a chi la vive, convoca chiunque legga davanti al mistero dell’imponderabile, perché protagonista di questa storia non è solo la ragazza perbene di Siracusa e il polacco puttanniere, ma lo sguardo geloso di un Dio-padre, di cui da tempo nessuno, nella narrativa italiana, aveva avuto il coraggio di invocare con tanta forza il nome.
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