Autore: Michela Matani
[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]
La memoria è il perno ideologico, tematico e linguistico-stilistico attorno a cui ruotano tutte le opere di Vincenzo Consolo. L’urgenza del recupero memoriale è la motivazione prima alla scrittura sempre civile dell’autore di Sant’Agata di Militello; ne determina soggetti e temi, influendo inevitabilmente sulle strutture narrative; è inscritta nelle forme della lingua e nella sofisticata elaborazione retorica e ritmica della sua prosa.Così è fin dal debutto sulle scene letterarie dello scrittore con un testo inizialmente trascurato o considerato in chiave genetica (come opera prima contenente solo i germi di un percorso che si sarebbe sviluppato in seguito), in realtà del tutto compiuto. Gli intenti e la pulsione alla scrittura vi sono già manifesti.
E dichiarano che c’è una ferita alle origini del percorso letterario di Vincenzo Consolo. Di quelle profonde che segnano un destino. Probabilmente, lo scrittore siciliano lo sapeva. Come sapeva che «April is the cruellest month», tanto da porre queste parole di Eliot a epigrafe del suo primo lavoro, La ferita dell’aprile (1963). Forse, sapeva anche che in quella ferita, non rimarginabile, avrebbe dovuto a più riprese immergersi per nutrirsene e reinventarsi. Il che, insieme alle ricerche approfondite che le sue opere presuppongono, aiuta a comprendere i lunghi tempi di gestazione dei suoi lavori. È una ferita molteplice e complessa quella raccontata nel romanzo d’esordio; inferta dalla presa di coscienza dell’orrore della guerra, del dominio incontrastato dell’ipocrisia, dalla scoperta della perversione e dalla delusione politica. Profondissima quest’ultima per uno scrittore che, di là dall’adesione a un’ideologia storica, ha sviluppato un «criticismo etico» (come ebbe a definirlo Di Legami) di forte impronta militante.
Se la speranza in un progresso costruttivo viene meno in modo definitivo, l’unica strada che si apre all’adulto è l’esilio dalla propria terra, dalla possibilità di partecipare al processo di emancipazione da un destino che conferma la sua astorica immutabilità. Ché se formalmente La ferita dell’aprile si colloca nell’ambito del genere autobiografico, di formazione e storico (o «storico-metaforico», secondo una definizione proposta a più riprese dallo stesso Consolo), nella sostanza racconta di un esilio che esclude ogni ritorno, pure sentito come irrinunciabile. Ed ecco allora la ferita riaprirsi, sublimarsi in arte e alimentare una volontà di resistenza che non si vuole sconfitta e decide l’agonismo proprio della narrativa consoliana. Perché senza radici non vi è identità, né privata né collettiva. Non vi è, dunque, civiltà. Alla cui costruzione lo scrittore non intende rinunciare. E perché, se non si torna alle radici, viene a mancare il motivo a ogni agire. Dove le “radici” non sono solo il passato privato e storico; anzi sono in primo luogo il passato delle forme linguistiche, delle intonazioni, dei ritmi che a quel passato appartengono e che quel passato restituiscono. Le forme della scrittura allora, tese espressionisticamente, racconteranno e insieme saranno la memoria; urleranno la rivolta contro l’azzeramento del passato e inciteranno a un risveglio coscienziale.
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