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Vita in ospedale. Pazienti, pudore e…padelle

Creato il 22 maggio 2011 da Unarosaverde

Vita in ospedale. Pazienti, pudore e…padelleQualche giorno fa, mentre si calmavano i tremori e i brividi post anestesia spinale, mi sono ritrovata a guardare il soffitto della stanza d’ospedale e a pensare a come, in meno di due ore, mi fossi trasformata da creatura zoppicante ma autonoma a corpo dolorante e immobile: flebo, drenaggio, tutore lungo la gamba, discreto dolore e sensazione che mi fosse passato sopra un trattore. Più volte. “E se scoppia un incendio? Come faccio a scappare?”, mi è venuto da pensare tra i fumi del Toradol. Io non credo molto ai piani di fuga in caso di emergenza. Credo che predomini, in quei casi, l’istinto di portare a casa la pelle. La propria, intendo. Gli altri si arrangino. Poi, mentre passavano le ore, si è insinuato nella mente un altro pensiero, ossessivo, pertinace e sempre più potente. “Mi scappa la pipì! Come faccio?”. Questo tipo di pensiero gode della peculiare caratteristica che, più cerchi di ignorarlo, più prende forza e baldanza.

Prima dell’operazione avevo scambiato qualche parola con la dirimpettaia di letto, operata il giorno prima e quindi ormai esperta delle faccende pratiche. Naturalmente è saltato fuori subito il tema della famigerata padella, ma lei era riuscita a corrompere le infermiere del turno di notte e a farsi portare in bagno. Nel corso dei tre giorni di ricovero ho poi scoperto – e questo mi ha consolato – che l’imbarazzo era condiviso dalla maggior parte delle donne presenti in corsia, eccezion fatta per le infermiere, le quali, ormai abituate, trovano tutte queste fisime delle pazienti quanto mai fuori luogo. Ma vaglielo a spiegare, alle pazienti. Io ho pochissima esperienza di ospedali. Mi sono sempre frantumata le ossa degli arti superiori e il problema di poter camminare da sola non si era mai posto. In quanto ai ricoveri dei familiari, ho sempre dato per scontato che, dopo una certa età, ma ben oltre la mia, ci si rassegni, durante la degenza, a non potersi alzare dal letto a proprio piacimento e a dover dipendere dagli altri.

Mentre me ne stavo lì a cercare di non pensare assolutamente al fatto che mi scappava tanto, ma proprio tanto, la pipì e a sperare che nessuno accendesse il rubinetto del bagno, ho cercato di razionalizzare la cosa. Mi sono chiesta come mai è così forte in noi occidentali questo ritegno nei confronti di ciò riguarda funzioni naturalissime del nostro corpo, mentre lo è molto di meno in chi cresce in paesi orientali. Cosa ci impedisce di vivere con serenità i momenti in cui dobbiamo chiedere aiuto e lasciare che la nostra dimensione fisica predomini sulle nostre sovrastrutture mentali? Non mi sono data una risposta, ma sono sicura che esiste.  In compenso un’infermiera è riuscita a farmi immaginare un grado di disagio infinitamente peggiore e ha liquidato i miei patetici tentativi di corruzione con un secco “Con me di turno tu non salti fuori. Vedi tu: se non la fai nella padella ti metto il catetere. Al massimo puoi chiedere a quelle della notte.” Erano le sei del pomeriggio, il cambio era alle 22.00. Ho capitolato dopo un’ora. Però le infermiere sono state carine: scherzando, hanno spento la luce, acceso la tele, chiuso la porta e lasciato che la faccenda seguisse il suo corso, quasi fossimo ad un centro benessere. La mattina dopo, appena tolti tutti i tubicini, guaendo dal male, ho guadagnato in stampelle la porta del bagno, ringraziando tutti i santi che la mia condizione di inerme fosse stata del tutto temporanea.


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