Alle morti di grandi personaggi della musica come John Lennon, Michael Jackson ed Amy Winehouse, si aggiunge Whitney Houston. Il mondo intero rimane sconcertato al ricordo di una voce melodiosa ma potente, come quella che canta “I’ll always love you”, e l’immagine contrastante di una vasca da bagno, alcool e psicofarmaci, che l’hanno vista cadere in un sonno profondo dal quale non si è più risvegliata.
È un’altra morte che ci fa riflettere. Persone che dalla vita hanno avuto “tutto” (successo, soldi, potere), ma che, al tempo stesso, non sono riuscite a trovare quello che più serviva per vivere. Sembra che quel tutto materialistico non sia bastato a dare un senso all’esistenza. Sembra che l’aver avuto tutto, abbia generato in loro un vuoto incolmabile che le sostanze stupefacenti e alcoliche hanno cercato di tamponare.
Mortari (2009) ci ricorda che siamo esseri umani mancanti per definizione. Ontologicamente “inconsistenti”, destinati a rincorrere un tempo che non si ferma e sul quale non possiamo avere alcun potere. Come dice l’autrice, “siamo mancanti d’essere e non c’è nulla nella condizione umana che dia garanzia di diventare il proprio poter essere; siamo una serie di possibilità, ma il possibile non è gia l’essere.”
L’uomo è, quindi, chiamato a dare una forma al proprio essere, ovvero a dare un senso alla propria esistenza. Quando assistiamo a graduali declini (come nel caso Houston), ci rendiamo conto degli effetti che può avere una “mancanza d’essere”, ma un po’ ci stupisce il fatto che succeda proprio a persone che risultavano essere ad un passo dal raggiungimento della “forma” desiderata. Chi lotta per fare del canto una professione, per far sentire la sua voce o per esprimere i suoi sentimenti attraverso la musica e poi raggiunge l’apice del successo scalando le classifiche e le hit parade, non è forse arrivato? Non è forse riuscito a raggiungere, professionalmente parlando, la meta voluta? Eppure sembra che questa “forma” non sia sufficiente, ma che al contrario, l’averla trovata renda perennemente insoddisfatti e infelici. Tali sfumature negative richiamano alla mente sensazioni e sentimenti che, autori e poeti del Novecento, hanno definito nei loro componimenti, “male di vivere“.
Il malessere intride tutta la vita, facendola diventare il male stesso. Arriva talmente in profondità al punto da non capire da dove scaturisce. Getta nello sconforto, nella solitudine e conduce ad una strada lastricata di psicofarmaci e/o alcolici che dovrebbero attutire un dolore che non passa, che non smette. Nell’insieme, si tratta di un mix di sintomi depressivi che impediscono di dare nuovi colori ai propri giorni. L’inattività prende il posto dell’attività e l’unico desiderio è quello di porre fine ad una vita che, come direbbe Vasco Rossi, “un senso non ce l’ha”.
Come si fa allora a “ricolorare” la vita? Come si aiuta una persona a ritrovare gli stimoli perduti per andare avanti? La pedagogia ci suggerisce di imparare a conoscere noi stessi, indagando la nostra intima essenza. Ci chiede di far luce dentro di noi per aumentare la consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che ci fa soffrire, partendo dal presupposto che “un dolore […] può lavorare così profondamente nell’anima da anestetizzare il desiderio di esistere”, (Mortari, 2009).
La riflessione viene proposta come strumento per essere padroni di se stessi e dei propri pensieri, così come di un problema che ci affligge. Ed è vero.. a volte ci capita di essere schiavi di un pensiero – generalmente negativo – al punto da sentirsene posseduti. Ma in realtà, come mi è stato ricordato recentemente: “Non sono i pensieri a possederci, ma noi a possedere loro”. È ovvio che non possiamo trattare la nostra vita interiore (pensieri, emozioni, ecc) come se fosse uno stereo in cui si premono, a proprio piacimento, i tasti “stop” e “play”, ma è pur vero che le emozioni sono nostre e che conoscendole potremo affrontarle in maniera diversa, senza scappare o affondare.
L’autoformazione, intesa in questo caso, come capacità di vivere in modo riflessivo e non lasciato al caso, può salvare da uno sconforto che non lascia spazio ai colori.