A rivederlo oggi il film di Henri-Georges Clouzot datato 1953 assomiglia a qualcosa di epico, colossale, mastodontico. Una follia degna di Fitzcarraldo che però arriverà 30 anni dopo.L’atto di Clouzot è un atto di coraggio e sfrontatezza, una prova registica che sgocciola sudore (freddo), trasmette afa soffocante, traduce sorprendentemente la tensione dei suoi poveri cristi oltre lo schermo, ne coglie le sofferenze, le sfaccettature, i modi d’essere, per poi spogliarli repentinamente (od omologarli: tutti con la stessa tuta alla partenza), imbrattarli di sporcizia, lasciarli soli con la loro paura. La paura, spina dorsale dell’intera pellicola, è, anche se mascherata, già presente nella prima parte, quella assolata e scanzonata – occhio ai condor però –, che monta i primi mattoncini delle personalità. È una mossa producente, molto producente, perché la delineazione dei due personaggi primari, Mario e Jo, verrà poi ribaltata nel prosieguo così come ribaltata sarà la loro anima, e a entrambi si affiancano altre vicende di inquietudine: la paura di non trovare un lavoro che porta al suicidio (dietro alla statua di una Madonna!), la paura di non rivedere più il proprio amato, la paura di perdere i propri affari, la paura di partecipare alla spedizione perché di solito chi fa questi lavori sporchi non torna mai indietro.
C’è però una paura che i 4 autisti non sembrano avere, quella di morire. Ma solo perché, e Clouzot lo suggerisce bene nel lungo preambolo, sono tutti poveri in canna e la possibilità di accaparrarsi del denaro supera il timore della morte. Non è avidità (quella riguarda solo il boss), è desiderio di ritornare a casa, magari come immagina Luigi: insieme a una bella donna.
Così la seconda parte è un tragitto che cammina in punta di piedi sul filo del rasoio, variegato da un registro eterogeneo di inquadrature che conferiscono dinamicità ad una situazione immobile e sigillata come è la cabina di un camion, con un orecchio attento agli effetti sonori – il rombo dei motori opportunamente dosato –, e un occhio di riguardo nei confronti della fotografia.
Il viaggio dei due colossi ha solo in apparenza un aspetto ripetitivo; perché ok, le varie disavventure a cui le due coppie devono far fronte sono leggermente romanzate, ma creano un tangibile strato tensiogeno che in quei momenti non avrà mai catarsi insinuando erroneamente l’idea che il tutto possa avere una felice conclusione.
Parallelamente si consuma il dramma umano certificato dalla prova titanica di Charles Vanel che si trasforma da smargiasso in carriera ad impaurito vecchietto, e di contro il giovane Mario da allievo titubante diventa un (imp)avido uomo. Due facce del genere: chi prosegue dritto sulla propria strada nonostante le urla di dolore, chi è immobilizzato nella falsa opulenza, nel petrolio che immonda non perché nero come la notte ma perché frutto del lucro, della compravendita, dello sfruttamento naturale. E mentre altrove si danza sulle note di Strauss, “oltre quello steccato” non può esserci altro che un dirupo, insieme al primo piano di uomo che non avendo paura di morire ha sfidato la morte, e ha perso.
Curiosità.
Esiste un remake ufficiale ad opera di William Friedkin dal titolo Il salario della paura (1977), e un altro in salsa maccheronica diretto da Neri Parenti che con Missione eroica - I pompieri 2 (1985) ricalca zitto zitto la trama di Vite vendute.
Un grazie a brazzz per il consiglio.






