Il video (solo audio) di Whipping Post dal live At Fillmore (da ascoltare leggendo, preferibilmente): http://www.youtube.com/watch?v=eCtaCO7BOJ4
Ventitré minuti di jam in cui confluisce tutta l’essenza degli Allman Brothers: il rock, il blues, il country e il jazz nella sua declinazione più moderna, quella che gli aveva dato Miles Davis appena un anno prima con il seminale Bitches Brew (e si consiglia il lettore di andare anche oltre le similitudini tra la copertina dell’album di Davis e quella di Abraxas dei Santana. In poche parole: ascoltateli entrambi). Si sente tutta la passione del sud, il Mississippi, il suo famoso Delta e tutto il resto! In poche parole è nato il Southern Rock.
L’attacco del basso è poderoso, in 11/8, malgrado Gregg Allman non né sapesse nulla (Yeah!!!). Si inserisce quasi subito la Gibson Les Paul di Duane e a seguire la SG (la mitica diavoletto) di Betts, che mette i puntini sulle “i” e contrassegna le chiusure della chitarra solista evidenziando il riff vagamente jazz-rock. Ed è lo stesso Betts ad incaricarsi di reggere la ritmica – una gran ritmica – sotto la coltre protettiva delle magmatiche sferzate di batteria e percussioni. Contemporaneamente Gregg Allman comincia a lamentare i suoi mali, accompagnandosi con l’hammond, malinconico e rauco quanto basta per non scambiarlo subito come l’ennesimo “viso pallido” che vuol cantare blues. È in gran forma, una delle migliori voci che il rock anni ’70 – soprattutto quello americano – abbia mai avuto. Nell’insieme sono raffinati ed eleganti, per l’appunto come un gruppo anglosassone. Al minuto e zerosei secondi esplode il ritornello ed è di quelli che ti fanno saltare sulla sedia. Duane taglia l’etere con le sue note bluesy e Gregg lo squarcia fragoroso e “grosso” come pochi bianchi sanno fare. I riffs si susseguono, impietosi per chi abbia mai avuto pretese compositive in ambito rock, deridendo orde di musicisti della domenica, noti o meno. Tutto ciò fino a quando lo stesso Duane, al minuto e quarantacinque, infila una serie di note da brivido e ci avverte che è iniziato il suo assolo.
Beh, per quanto mi riguarda come chitarrista, la voglia di suonare per un attimo è davvero sparita, ma poi, prestando più attenzione al basso che pompa e al tappeto sonoro delle pelli continuamente e vigorosamente percosse, non può che ricominciare a prudermi la mano sinistra (quella del diavolo?). Da tre minuti e zeronove l’assolo è da paura, chiarendo una volta per tutte il motivo per cui Duane Allman è stato considerato il migliore dopo Jimi Hendrix. Non sono mai pienamente d’accordo sulle classifiche, ma direi che Skydog merita le celebrazioni più sentite. Poi una serie di bending che infuocano la tastiera della chitarra porta il fluire delle note su un di un momento più riflessivo e melodico (Carlos – un tizio coi baffi e la diteggiatura della chitarra dalle inflessioni abbastanza ispaniche – sentiva queste cose persino mentre faceva la pupù, ve lo dico io). La tonalità è sempre la medesima, consentendo sullo stesso accordo la dilatazione libera dell’assolo, come avevano cominciato ad instradare da qualche annetto John Coltrane e Miles Davis (per citare i più famosi, ma non erano solo loro due) con le loro concezioni modali. Di fatti Duane è molto coltraniano nella sua chiusura. Betts capisce il segnale, così tutti e due i chitarristi, con un brevissimo quanto efficacissimo intermezzo all’unisono, suonato ad ottave differenti, terminano il primo momento improvvisato e ridanno spazio a Gregg (siamo a 5.24).
Si arriva sino al ritornello e questa volta è Betts a cominciare il suo solo, riprendendo da quei momenti vagamente free che aveva lasciato Duane. Dickey tende a volersi differenziare dal compagnetto, con uno stile più acido e fatti di brevi frasi a la Sonny Rollins. Già, i tizi suonano rock, ma lo fanno con spirito jazzistico. Poi si lascia andare anche lui con lunghe elucubrazioni, sensazionalmente fluide, apparentemente interminabili. Betts ha la sola sfortuna di confrontarsi con Skydog, ma assicuro il lettore che non sfigura assolutamente.
A dieci minuti le intenzioni della band si mostrano per quel che volevano essere, e cioè una ampliamento della visione dei Dead e la costituzionale appartenenza degli Allman al novero delle jam bands. Dietro le muscolari pelli, i demiurghi del ritmo smettono di mazzuliare – novelli Efesto che erano stati – per forgiare un tempo ancor più dilatato e lento, anzi quasi un non-tempo che va direttamente a ricollegarsi a quel Bitches Brew di cui dicevo prima. E i chitarristi per qualche attimo sono persino presi da frenesie free di colemaniana memoria. Ma poi tutto ridiventa molto blues.
Stanno improvvisando tutti. Adesso è il suono complessivo a vibrare. Al tredicesimo minuto un nuovo tema sembra far capolino (e non è Santana, anche se lo sembra), funebre e tetro. Beh, ricordiamoci che in fondo il tema del testo è “lei che lascia lui”, e spesso il lui di turno si fa prendere un po’ troppo da queste situazioni anche troppo banali e per certi versi sanremesi al contrario (nel senso che se nelle canzoni di Sanremo ci si mette insieme, qui ci si lascia). Dal quindicesimo minuto la situazione si rivitalizza e le due chitarre – ancora una volta con il loro distintivo suonare la stessa cosa all’unisono ma ad ottave differenti, che tanto influenzerà prima i Thin Lizzy e poi gli Iron Maiden – partendo da un tema ulteriormente differente, introducono una straziante chiusura in bending, certo non prima di aver chiosato con lo stesso intermezzo jazzy (accordi ad ottave) che aveva concluso il primo assolo di Duane. Il cuore è palpitante, per l’esplosione di note e le scariche di batteria.
Poco prima del diciassettesimo minuto il “sometimes I Feel…” di Gregg suona quasi ironico. Non posso credere che al buon vecchio Gregg Allman non venisse da ridere dopo una simile jam, ridere di soddisfazione, mandando al diavolo la ragazza che lo aveva lasciato o i dissapori del primo momento con il fratello Duane. E da questo momento c’è il gran finale, con l’ennesima parte improvvisata, su tempi lenti e da anthem. Sembra un poema epico, di tipo omerico, con i suoi eroi ed i suoi miti. Era uno dei migliori momenti della Allman Brothers Band.
Purtroppo il 29 ottobre del ’71 il cane del cielo se ne va schiantandosi con la sua moto, dando modo a Ronnie Van Zandt dei Lynyrd Skynyrd (altro tizio che purtroppo se ne è andato troppo presto e nel suo momento migliore) di poter scrivere una song dedicata a lui, la celebre Freebird. Nella stessa zona in cui morì Duane, qualche anno dopo ci lasciò le penne anche Berry Oakley, il bassista degli Allman, facendomi nascere il dubbio che il southern rock porti un po’ di sfiga. Resta il fatto che gli Allman hanno influenzato schiere infinite di musicisti, dai Lynyrd Skynyrd ai Phish, passando per i Black Crowes, i Widespread Panic, i Blues Traveler e ovviamente i Gov’t Mule (solo per citare i più noti).
Album fondamentali degli Allman Brothers: Idlewild South; At Fillmore East; Eat a Peach (ancora con Duane); l’ottimo e sottovalutato Brothers and Sisters; Hittin’ the Note (il nuovo corso degli anni ’90 con la coppia Warren Haynes e Derek Trucks alle chitarre) e il superlativo live One way Out (con una grandiosa versione di Whipping Post).
Brani da ascoltare oltre quella di cui ho già detto anche troppo: Midnight Rider; In Memory of Elizabeth Reed; Ain’t Wastin’ Time No More; Melissa; Wasted Words, Southbound; Come And Go Blues; Jessica; Desdemona; Woman Across The River.
E questo è quanto, alla prossima e lunga vita al Rock ‘n’ Roll!!!
Nota a margine: Da ascoltare anche la versione di Whipping Post spesso eseguita nei suoi live da Frank Zappa.
Babar da Celestropoli