In una Milano flagellata dagli scioperi e dal maltempo, la vivace sezione di Scandinavistica dell’Università Statale incontra Morten Brask, autore de “La vita perfetta di William Sidis”, uscito pochi mesi or sono per Iperborea. Nonostante le innumerevoli complicazioni, la sala è piuttosto gremita e in silenzio attende le parole dello scrittore danese, ancora poco conosciuto in Italia, che si appresta a parlare di sé e del suo William Sidis.
WILLIAM SIDIS. William James Sidis non è un personaggio di fantasia. Nato a New York nel 1898, rimane tutt’oggi la persona con il quoziente intellettivo più alto mai misurato, tra i 250 e i 300 punti. Un bambino prodigio, insomma. Ed è proprio questa incredibile intelligenza a condizionare tutta la sua vita e a fornire a Brask materia per il proprio libro: la vita del genio è, a conti fatti, una vita felice? E un genio ha il diritto di optare per un’esistenza ritirata, o il solo fatto di possedere capacità superiori alla media lo rende di conseguenza obbligato a servire la società indipendentemente dal proprio volere personale? Difficile rispondere, e forse nemmeno Brask può fornire una vera risposta, tanto che lui stesso, durante l’incontro, rivolge al pubblico queste domande. Leggendo il libro, la vita di William appare tutt’altro che perfetta: una mente geniale non lo tiene al riparo dal fallimento. Fallisce con Martha, l’amore di una vita; fallisce ad Harvard, mancando per un soffio la laurea “cum magna laude”; fallisce in politica, venendo arrestato e incarcerato durante una manifestazione comunista; e, più di tutto, fallisce nei rapporti umani, campo, questo, in cui il QI ha poca, pochissima importanza. “Vorrei vivere la vita perfetta. L’unico modo per avere la vita perfetta è viverla in solitudine” confiderà nel 1914 ad un giornalista, uno dei tanti che per anni l’hanno inseguito, probabilmente non rendendosi conto di tallonare un bambino. Sorge quindi spontanea un’altra domanda: William Sidis è mai stato davvero un bambino? Non ha mai giocato con i suoi coetanei, non ha mai avuto passatempi infantili. A diciotto mesi leggeva il New York Times, pochi anni dopo era già in grado di tradurre dal latino e dal greco, a undici anni entrava ad Harvard. Ha vissuto i suoi primi anni con la mente scissa tra età adulta e infanzia. La domanda allora nasce spontanea: una vita vissuta in totale isolamento dagli altri è una vita soddisfacente? Per quanto i poteri della propria mente possano essere infniti, non si arriva a sentire una mancanza cocente di quel contatto umano che pare essere essenziale? Essere un genio porta all’isolamento e all’incomprensione da parte delle persone “normali”, questa è una certezza. Ma ne vale la pena? Vale la pena avere a portata di mano un mondo di scoperte, se poi anche solo scrivere una dispensa universitaria comprensibile ai propri studenti diventa un’impresa, dal momento che è impossibile capire i limiti di una mente nella media?
MORTEN BRASK. Morten Brask nasce a Copenhagen nel 1970. Si laurea con una tesi, pubblicata successivamente, sulla propaganda nazista nel cinema. La sua è una vita tranquilla, forse troppo. Appartenente ad una famiglia benestante, Brask conduce un’esistenza che fatica a non definire banale, monotona. Come spiega al pubblico, sente il bisogno di affrontare nuove esperienze, di scontrarsi con le proprie paure per diventare una persona diversa. Per ricercare, insomma, il vero Morten. E quindi parte. Prima per l’Indonesia, poi per altri luoghi. Il filo conduttore è uno soltanto: essere spaventati è positivo, l’importante è superare le proprie paure facendo ogni giorno qualcosa di nuovo, qualcosa che il giorno prima non si avrebbe avuto il coraggio di fare. Ne deriva il desiderio di viaggiare in zone difficili, lontano dalla vita perfetta e ordinata della capitale danese. Brask spiega i suoi pensieri gesticolando in modo quasi italiano e sottolinea come anche nei suoi romanzi si rifletta un interesse per le situazioni estreme: un esempio lampante è “The Sea in Theresienstadt“, che tocca la tematica della vita e dell’amore in un campo di concentramento. Brask si sofferma poi sui racconti del periodo trascorso a New York per scrivere La vita perfetta di William Sidis. Si tratta di un periodo di ricerca, ricerca che si sofferma anche sui più piccoli dettagli, perchè ciò che dev’essere descritto con precisione è ciò a cui William dedicò la propria attenzione in vita. L’autore fa ricerche, dunque, sugli orari dei tram (Sidis collezionava biglietti del trasporto pubblico), si sofferma ad osservare come la luce cade su Central Park in una specifica ora del giorno. Ricreare condizioni reali sembra quasi essere una questione di onestà nei confronti del personaggio che si sta descrivendo. Brask ha una spiegazione anche per l’ordine temporale del romanzo, che alterna capitoli ambientati durante l’infanzia del personaggio a capitoli risalenti ai suoi ultimi giorni di vita: gli eventi spesso acquisiscono un senso solo quando ci si ripensa anni dopo, ed è questo che lui ha cercato di ricreare. Ciò che stupisce leggendo il libro è come questi continui sbalzi tra passato e futuro non creino confusione, anzi: tutto è chiaro, preciso, limpido, in un mosaico di momenti e sensazioni che cattura e rende William Sidis un personaggio incredibilmente profondo, sfaccettato e complesso.
Al termine dell’incontro basta osservare il pubblico per rendersi conto di come tutti siano rimasti affascinati da Brask. La speranza più grande, ora, è che presto siano disponibili traduzioni italiane degli altri suoi romanzi, anche alla luce dell’ottimo lavoro di traduzione eseguito da Ingrid Basso.