Io non conoscevo il termine body shaming, ma non occorre chiamarsi Margaret Thatcher per intuirne il significato. Se volete farvi un’idea in merito, vi suggerisco alcuni post di Softrevolution, questo in particolare, che mi sono stati di grande aiuto nel dare un nome alla sensazione di disagio che ho provato e provo tuttora quando qualcuno -che conosco oppure no, che stimo oppure no- esprime ad alta voce commenti gratuiti sul mio aspetto estetico o su quello di altre ragazze.
Ho ascoltato Yoda e credo di aver fatto qualche passo avanti: ho smesso di commentare a voce alta o bassa l’apparenza degli altri. Questo non significa che abbia azzerato il mio senso critico o estetico. Chi mi conosce sa che la mia vita si alimenta di dolorose dicotomie: dieta vs abbuffata, total black vs colore, mani bucate vs pidocchioso ragnismo, Brendon vs Dylan, e soprattutto forma vs sostanza. Sono sempre lì a ripetermi con sono i contenuti a fare la differenza, ma poi mi perdo a guardare la scatola.
Il brutto mi fa stare male. In queste settimane in cui ho visto decine di case di sconosciuti, avrei voluto togliere i centrini dai tavoli, staccare quadri dalle pareti, svuotare acquari. Avrei morso le caviglie dei padroni di casa gridando: maledetti bastardi, come avete potuto mettere quelle piastrelle, pagherete caro, pagherete tutto. Per fortuna c’è voi-sapete-chi, con la sua gattopardesca eleganza e compostezza, a lanciarmi occhiatacce di riprovazione (in un paio di casi, anche delicate ma secche manate sulla nuca) quando passando davanti ai bagni con stendibiancheria saliscendi sulla vasca inizio a mimare conati di vomito infilandomi due dita in gola.
Conservare per me i pensieri, senza manifestare la mia costernazione è uno delle mie good resolutions del 2014. Avendo io tantissime amiche -alcune dotate di uno spirito di osservazione ancor più sviluppato del mio-ho deciso anche di non fomentare il fenomeno e non partecipare ai processi agli assenti, al loro peso, taglio di capelli, abbigliamento. Non posso impedire che lo facciano le altre, ma ho ridotto all’osso i miei interventi (rimane invece consistente il mio contributo alle rassegne stampa su amori nuovi/vecchi/rinati, chi ha detto/fatto/scritto cosa: lo ritengo mio dovere morale e lo faccio per il bene della comunità, dove con comunità intendo i lettori di questo blog).
Essermi data questa disciplina mi fa stare meglio, ma mi pone di fronte alla mia concezione puerile e pateticamente karmica delle buone azioni: “Se io smetto di fare il processo, gli altri smetteranno di farlo a me”. E invece.
Non ho innescato alcun circolo virtuoso: anzi, nelle ultime settimane sono fioccate su di me una serie di osservazioni esplicite che vanno dalle doppie punte, alle occhiaie, al mio incarnato e ai di lui brufoli, all’imponenza del mio herpes labiale, fino -l’evergreen- all’improbabilità dei miei outfit. Alcune persino retroattive: “Adesso sei in forma ma quando sei stata assunta abbiamo (plurale maiestatis, caso di personalità multiple o concorso di colpa? Chi lo sa) addirittura pensato che fossi incinta (i.e. 2 anni e non più di 2 kg fa)”.
Non potevano essere controfrecciate (contro che? Ora sono praticamente più buona di Bernadette). Sapete cosa penso dell’invidia, e no, non era nemmeno quello. Ho dovuto rintanarmi nel buio della mia stanzetta e riflettere in silenzio per comprendere che si trattava di ordinari e banali casi di DIARREA VERBALE.
PS Visto il cinema che ho piantato su, paio un’illuminata. Comunque no: sono semplicemente uscita dal dorato mondo dell’infanzia, in cui non esisteva alcun filtro tra cervello-bocca, in cui si poteva vomitare cazzate a sproposito e al massimo la mamma arrossiva un po’. Sono ancora molto lontana dal vero obiettivo: smettere di pensarci e interiorizzare due concetti-base: “ognuno fa quel che vuole/può del suo corpo” e “l’aspetto non impatta in alcun modo ciò che questa persona ha da dire/dare“.