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Zena Moncada recensisce “Il sentimento prevalente” di Lina Dettori.

Creato il 30 agosto 2010 da Fabry2010


“La mattina del 16 aprile del 2009, Cosimo Serra attraversò a passo sostenuto la strada stretta che lo separava da una palazzina dei primi del ’900, recentemente restaurata sotto l’attento controllo dell’Intendenza alle Belle Arti del Comune di Mèrulas.”

Così prende avvio il nuovo romanzo di Lina Dettori,  Il sentimento prevalente, che, fresco di stampa per i tipi della Iris Edizioni, viene a proporsi, dopo La famiglia immaginaria e Baffi di cacao, come ulteriore testimonianza di una vena narrativa ricca e umorosa.

L’incipit è una immediata chiave d’ingresso: pone  sul tappeto un tempo, storicamente accertabile, e un personaggio, ben individuato, nella cornice spaziale di un immaginario (quanto realistico) paese della Sardegna dei nostri giorni, sottratta ad ogni idillio paesaggistico e restituita nel suo tessuto di vicende, di rimandi e di contraddizioni.

Già dalle prime pagine Lina Dettori lascia intravedere un orientamento di fondo; optando per il modulo narrativo del romanzo, l’autrice sceglie la strada della pluralità: la polifonia, non l’unicità di un suono monocorde, l’intarsio e la connessione degli eventi, non la singolarità di un episodio, la ricerca che chiama il lector in fabula, non l’esplicitazione.

Il romanzo muove, infatti, alla ricostruzione dei vissuti intermittenti che si intrecciano alle spalle del protagonista e che lo portano, ora, a dover decifrare il movente di un tradimento capace di mettere a repentaglio la sua onorabilità, il suo ruolo sociale, la sua condizione economica: un tradimento così amaro da incrinare l’equilibrio di una intera esistenza, in quanto perpetrato da Antonio Lopez, l’amico con cui Cosimo, dai tempi del liceo, ha condiviso esperienze, affetti, scelte di lavoro.

La ricostruzione degli eventi diventa l’occasione per un viaggio tentacolare nel passato, ne imbocca  le strade che parlano di sofferenza e di abbandono, di voglia di gettare la propria esistenza ai cani e di riconciliazioni con le ragioni della vita, di omologazioni e di ribellioni, di amicizie e di odi parallelamente coltivati nel non detto, nel non dichiarato o in sottaciute alleanze.

E’ lì, insomma, grazie a questa operazione di ricomposizione, che avviene l’incontro con le storie, che si diramano in un brulichio di rivoli e segmenti narrativi: alcuni risulteranno essere piccole deviazioni o soste, altri, invece, scorreranno sotto la pelle del romanzo come fiumi carsici, scomparendo e riaffiorando per annodare fili che parevano smarriti.

Sono le linee d’azione che fanno capo a personaggi rilevati e rilevanti: a Marina, ad esempio, madre di Cosimo e di Annita, che cerca di anestetizzarsi quotidianamente con l’alcol di poveri vini da pochi soldi, a Giacomo, padre e marito in fuga, a Battista, che, ascoltando unicamente i “sonaglini” del suo innamoramento, scommette sull’improbabile, a Cosimo e a quella schiera di bambini e bambine che, divisi in famiglie o mondi diversamente rotanti, cresceranno, si cercheranno, si troveranno e si lasceranno fra le pagine del libro.

Eppure non stonano, accanto a questi, certe figurine minori che dicono dei tanti modi in cui si può stare dentro la realtà e dentro la vita: seguendo una missione o una piccineria, un vizio o una passione…

Ne esce un libro dalla struttura circolare, orchestrato in tempi diversi, scandito nel ritmo delle partenze, dei ritorni e delle digressioni, al cui interno, in una rete di relazioni, la narrazione, per usare le parole di R. Bourneuf e R. Ouellet, si “sviluppa, prende il suo tempo, descrive giri e rigiri”.

Un impianto così complesso richiede un ampio telaio e una navetta esperta in percorsi e giochi di filo: Lina Dettori non inciampa nei nodi del suo ordito, ma conduce la tessitura con mano sicura.

Si ritaglia, anzi, una distanza che le consente la “giusta misura”.

Si tiene abbastanza lontana da proporsi come narratore ironico, che, tutto sapendo, non rinuncia a cogliere il lato paradossale delle situazioni, a mettere in luce – con sguardo fra il caustico e il divertito – alcuni modi (isolani e non) di intendere la vita associata, dal primato dell’interesse per il denaro e per l’utile, che alimenta la fame di potere non solo politico, al culto saltuariamente ciclico del  “premio Nobel che tutto il mondo c’ invidia”.

Parallelamente, si fa tanto vicina ai personaggi da rovesciarli come guanti, da rilevarne debolezze e aspirazioni, scoprendone mappe interiori mai lineari, quasi mai consolatorie.

Nel sottosuolo di questi personaggi, infatti, sono proprio i sentimenti a covare e a liberare, in una lenta cessione nel tempo, tossine, veleni e rari balsami.

I personaggi, colti nel loro fare e nel loro sentire, sono testimonianza di quanto i sentimenti possano vivere di sé, lievitare e germinare con deflagrazioni inattese: l’affetto fraterno genera complicità, la contemplazione della fragilità può diventare amore, l’insoddisfazione si deforma in esasperazione, l’ammirazione si contorce in invidia, l’umiliazione, la rabbia, la vergogna conoscono le metamorfosi nell’odio e nella vendetta. Al fondo, accanto alla sofferenza, resta, inestinguibile, la nostalgia per la pienezza dell’essere e del vivere. E’ una nostalgia non proiettata nel passato, ma avvertita per un bene ancora a venire, che è tenuto lontano proprio dal risentimento e dal rancore, esentati dal rimorso, dal doppio morso della coscienza.

Lina Dettori setaccia questi sentimenti, il cui potere lacerante rende dimidiato e aperto anche il finale, imbuto nel quale tutte le fila delle storie convergono.

L’autrice non dà pertanto soltanto una convincente prova di ideazione e regia o una conferma della capacità di leggere la complessità della sua terra: traccia una grammatica descrittiva dei moti interiori. Non è poca cosa, in momenti in cui l’opacità delle parole offusca la possibilità di “dare nome” e, quindi, di distinguere e riconoscere.



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