La cronaca anonima Sequente anno Domini
Si dà qui notizia del ritrovamento di una cronaca redatta verosimilmente attorno alla metà del XIII secolo, conservata, purtroppo non integralmente (mancano i primi fogli con l’incipit e la parte conclusiva), in una trascrizione secentesca, nel fondo cartaceo di un archivio privato, che si intende mantenere di difficile accesso. Le indagini iniziate per attestarne l’autenticità, necessario corredo di ogni ricognizione documentale, sono state interrotte a causa della pesantissima riduzione dei finanziamenti dovuti a ricerca e istruzione. Della cronaca, scritta in cattivo latino notarile e manco a dirlo anonima (a giudicare dal linguaggio, l’autore è probabilmente un chierico poco itinerante, di cultura medio-bassa, che ha visto giorni migliori), ho curato una prima traduzione. Trito stratagemma. Guarda te se uno deve buttar via il suo tempo in questo modo…
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Sequente anno Domini [lacuna] fuit hyemps aspera et orribilis, ita quod nivis et frigoris superfluitate insolita mortue sunt vinee, olive, ficus et alie multe arbores fructifere. Eodem anno, pestis secuta est avium, et precipue pullum, caprarum asinarum equorum et multarum utilium bestiarum…
Nel successivo anno del Signore… ci fu un inverno rigido e terribile. tanto che per gelo e straordinaria abbondanza di neve morirono viti, ulivi, fichi, e si schiantarono molti altri alberi da frutto. Nello stesso anno, scoppiò una pestilenza di uccelli, soprattutto di polli, e di molti altri animali sì necessari all’uomo: pecore, asine, cavalli.
Le acque intorno a Venegia ghiacciarono, e tutta la laguna fu a tal punto indurita che barche e navigli si incastrarono, e chiunque poteva recarsi dalla terraferma fino in San Marco a piedi, o a cavallo, se era cavallo così veloce da fuggire la peste.
Il freddo acerbissimo e la strage di animali nei campi e nei boschi si aggiungevano a tanti altri mali, ora di guerre, ora di spaventose inondazioni, ora di discordia e contese e crimini (homicidia plagas iniurias crimina rapinas furta incendia villarum devastationes atque castellorum), che in quell’anno facevano credere vicino il giudizio finale. E certamente le colpe di noi uomini, quelle conosciute e massimamente quelle a noi ignote, erano degne di questo, anche di peggio. Il disgraziato contadino durante l’aratura vedeva stramazzare e accasciarsi tra i solchi i tori più forti (Ov., Met., VII, 538-539), e tutto languiva nei boschi, sui campi, per le strade. Ovunque giacevano corpi disfatti, l’aria era come appestata da fetidi miasmi. (Ov., Met., VII, 547-549)
Paure e grande apprensione recarono allora i rumori e le voci sulla carestia che sarebbe seguita alla devastazione nelle campagne e ai seccamenti degli alberi. Così si infilano l’un dietro l’altro i malanni, e pare che non ne finisca il corso. I frutti non si sarebbero colti, oppure sarebbero marciti appena raccolti. Le vacche sopravvissute erano sterili e non avrebbero dato latte. Le pecore erano morte coperte di piaghe e né lana né pelli erano di alcuna utilità. Il vino sarebbe stato acido. I men coraggiosi quasi miravano la miseria passeggiare per le contrade della Marca, e medici e astrologi già divisavano che la pestilenza non si sarebbe contentata di portar via le bestie, ma a tale lue di bruti avrebbe tenuto dietro quella degli uomini, così indeboliti dalla fame, e inermi e nudi sotto le stelle tristi e cattive. Era questa gagliarda e sicura congettura di futura umana pestilenza. Ovunque sarebbe risuonato un grido! Morte! Morte! Atroce e furibonda Morte! Presto, molto presto tutto questo sarebbe accaduto, i sapienti dicevano, quasi chiosando il poeta:
Pervenit ad miseros damno graviore colonos
pestis et in magnae dominatur moenibus urbis
(Ov., Met., VII, 552-553)
Con effetti ancor più gravi, la peste giunge a colpire
i miseri contadini e a imperversare fin tra le mura della grande città.
In civitare Civetiense – che certamente nessuno avrebbe detto magna –, accanto alle tristi profezie e alle paure per l’indomani, molte altre voci correvano in quei giorni di bocca in bocca, nella piazza, nelle vie, e soprattutto nelle chiese cittadine. Queste voci raccontavano tutte della vita nella manciata di case e di fabbriche che era cresciuta attorno alla pieve e al monastero delle Benedettine di San Pietro, nel borgo appena fuori le mura lungo il basso corso del fiume. Era un borgo popolato di recente da molti nuovi arrivati. Famiglie intere erano arrivate a causa della miseria nelle campagne, oppure uomini banditi da altre città, o interi gruppi che si spostavano coi carri, riluttanti a piantare radici in qualche luogo, per qualche tempo, o artigiani impoveriti accanto a mercatanti rapidamente arricchiti in due o tre stagioni, e anche piccola gente, uomini comuni che impegnavano il loro denaro a usura e preferivano condurre i loro traffici lontano dal centro della città. Nel borgo erano aperte alcune botteghe di giudei, numerose erano le case di tessitori, il maniscalco era sempre sull’uscio a osservare carri e cavalli al passaggio sulla strada di Patavia, un bravo fornaio aveva portato dalla Germania l’arte di preparare il pane con le biade di segala, del quale pane appena fatto ogni mattina si poteva sentire nella contrada il profumo, e allora ognuno era preso da nuovo appetito, e da un certo buon umore che scacciava i pensieri di miseria, perché il solo odore significava che c’era pane per il giorno e tutti ne avrebbero mangiato. Molti così alla mattina se ne andavano per la via cantando e motteggiando.
(continua…)