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A proposito del mestiere dello scrittore

Da Marcofre

La scrittura è un mestiere con una particolarità mica da ridere: se viene svolto, la paga è scarsa, le soddisfazioni sono poche. Ma si continua a farlo. Scrivo questo sull’onda di alcune personalità che s’improvvisano scrittori; niente di male, forse. Purché sia chiaro che si improvvisano, e anche i risultati saranno… improvvisati.
E ci si improvvisa perché: “Non ci vuole tanto, sul serio, basta un poco di impegno e passione, e voilà”.

Torniamo ad analizzare l’espressione “il mestiere dello scrittore”. Significa che ci si dedica a esso quasi ogni giorno, nei ritagli di tempo. Qualcuno dei lettori di questo blog alza già la mano per indicarmi che all’inizio tutti gli scrittori sono improvvisati e svolgono il lavoro di ingegnere, operaio, garzone…

Non è esatto, ma forse è meglio spiegare cosa intendo per “improvvisato”. Di solito lo scrittore improvvisato è il tipo che fa bene in un settore (canta, racconta barzellette), e saltando la fatica, il senso di impotenza e di inutilità, il fallimento, approda quasi magicamente alla narrativa.
Perché nel mestiere dello scrittore la fatica, il fallimento, il senso di inadeguatezza, sono essenziali, esattamente come per l’operaio, il garzone, fanno parte del gioco le celeberrime “trippe”.

Se non temessi di apparire retorico, direi che il dolore è parte di questo mestiere.
Se chi lo pratica ha talento, e passa attraverso la scuola del dolore, può ben dire: “il mestiere dello scrittore”.Dostoevskij era perseguitato dai debiti, e dovette scrivere “Il giocatore” in un mese, per non perdere i diritti su quel libro e quelli successivi. Raymond Carver non ne parliamo: alcol, tribunale…

A me pare che ci sia una tale diversità tra chi conduce una trasmissione, e pubblica un libro (di solito sollecitato da una casa editrice), e chi invece strappa minuti al sonno per buttare giù quattro righe decenti. Quest’ultimo lo fa perché non lo considera una gemma da incastonare nella corona che lo ha proclamato persona di grande successo.

Bensì perché è una questione importante, quasi vitale.
Toglierei il “quasi”.

So che “questione vitale” vuol dire tante di quelle cose che uno, rovistando per bene, può trovarci quello che vuole. Purtroppo, non è sufficiente.
Quello che serve non è in qualche dimensione impalpabile, là fuori, ma dentro di noi. O c’è e respira (e allora il nostro compito dovrebbe essere permettergli di respirare meglio, di svilupparsi e crescere in libertà), oppure non c’è niente da fare, mi spiace.

Sto parlando del talento. Se dovessi provare a spiegare di cosa si tratta, per me il talento è un morso, che sento quando prendo in mano un racconto di Carver, di Flannery O’Connor o un romanzo di Tolstoj. Costoro hanno la capacità di prendere i comuni ingredienti della vita (anche aggeggi come una teiera, una bottiglia di vodka, un pelapatate), e di scagliarli in una dimensione superiore. Si viene cioè presi (morsicati), e trascinati altrove.

Si cerca di solito qualcosa di meglio per capire se esiste o no il talento: purtroppo io non so spiegarlo in maniera differente. Le parole sono le stesse (vale a dire: queste che leggi, proprio queste, le puoi scovare, in un ordine ben diverso, in qualunque racconto o romanzo di Tolstoj). Eppure basta scorrere lo sguardo alle prime righe de “La morte di Iván Iljìc” per capire di cosa parlo.
Di un morso.


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