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ABC di un anno scolastico particolare

Creato il 07 giugno 2010 da Fabry2010

Vivalascuola. ABC di un anno scolastico

Questa è l’ultima puntata di vivalascuola dell’anno scolastico 2009-2010, a meno di urgenze impreviste. Grazie di cuore a collaboratori e lettori e buona estate a tutti.

Riflessioni sull’anno scolastico 2009-2010
di Tullio Carapella

Premesse
Il 2009-2010 è stato sicuramente un anno scolastico particolare, cominciato con clamore, si sta chiudendo “in sordina”, malgrado alcune recenti incoraggianti fiammate, in particolare del mondo delle “primarie”, coperte mediaticamente dalla nuova stangata governativa, dalle sempreverdi polemiche sulle intercettazioni e da altre miserie.

Nei corridoi delle scuole si respira stanchezza come mai prima; da giorni studenti, docenti e non docenti sembrano ripetere in coro la stessa cantilena: “non vedo l’ora che finisca!”. Quasi che lo scorrere del tempo sia stato in questi mesi più lento del solito. Difficile capirne le ragioni, probabilmente da ricercare nello stress e nella frustrazione nel vedere le proprie esigenze e richieste spesso ignorate, quelle dei ragazzi dai docenti, quelle di docenti e altri lavoratori della scuola dal Ministero.

Certo la stanchezza non nasce da un carico eccessivo di “iniziative di movimento”, che sono state invero molto più rare e meno partecipate dello scorso anno. Se, infatti, un anno fa risultava difficile riassumere in poche pagine i mille episodi di una stagione vissuta in trincea, oggi appare superfluo un resoconto cronologico e si può forse provare a richiamare sinteticamente e schematicamente i temi e i momenti salienti.

Tanto proverò a fare, scusandomi in premessa di un quadro che non può che risentire della particolarità del punto di osservazione (quello di un insegnante precario delle superiori dell’“operosa” Brianza) e, quindi, per le tante “cose importanti” che finirò per trascurare.

ABC di un anno lento

A come Alba, l’alba di un nuovo anno scolastico, cominciato tra fine agosto e primi di settembre con le proteste clamorose dei precari: assemblee, occupazioni, presidi davanti ai provveditorati e sui tetti, scioperi della fame e qualche iniziativa più pittoresca, per la gioia dei giornalisti. Le tante iniziative non sono però mai giunte ad una sintesi, gli uffici scolastici provinciali hanno contribuito a frammentare i diversi settori e il governo ha mandato la forza pubblica, armata, a presidiare le convocazioni per i nuovi contratti annuali. La stampa nazionale che conta, prima ancora che l’anno scolastico cominciasse, si era già dimenticata dei precari della scuola.

B come Bestie. Gli animali generalmente dividono il cibo con gli esemplari della propria stessa specie, soprattutto quando ne hanno d’avanzo. Gli uomini no, non in Italia almeno, soprattutto non in questi ultimi mesi. Bestie davvero speciali non si importano se la miseria ammazza migliaia di cuccioli di uomo, non hanno pietà per chi è colpevole di avere fame, gli sbattono la porta in faccia, l’arrestano, a volte l’ammazzano, si compiacciono dell’abilità dei “nostri” nell’aver trovato l’accordo con il rais di Libia, soldi in cambio dell’impegno a lasciar morire nel deserto. Sarebbe bello poter dire che la scuola non c’entra… e invece ce l’hanno fatta entrare, volente o nolente, con le leggi razziali sul tetto del 30% e con la mensa negata ai bambini poveri, pane e acqua avanti ai propri compagni. La scuola c’entra perché è parte di questa società e tante volte sentiamo alunni e alunne scimmiottare l’ottusità imperante. Per fortuna, però, c’è l’altra faccia della medaglia: i bambini dividono il cibo, qualcuno paga per chi non può, le maestre si fanno in quattro per aiutare quei ragazzini rom che l’amministrazione milanese sta perseguitando da mesi, distruggendo a più riprese le loro baracche, costringendoli ad una diaspora continua da un quartiere all’altro.

C come Crisi. “C’è la crisi, non si può fare altrimenti”, è un ritornello sempre uguale che vuole giustificare anche il razzismo e che di certo è servito a spiegare i tagli italiani all’istruzione. Nel prossimo futuro provocherà la cura dimagrante per gli stipendi, già bassi, di quei lavoratori della scuola che non avranno perso il posto. Ma soprattutto, da troppi mesi questo pantano economico costituisce un fardello in più, pesantissimo, sulle spalle di tanti tra i nostri alunni. Che lo diano a vedere o meno, portano a scuola il peso delle discussioni e dei drammi che vivono nelle loro famiglie e, specie tra gli adolescenti, hanno difficoltà nello scorgere spiragli di luce nel proprio futuro. Del resto di questa crisi non si vede via d’uscita, l’unica ricetta geniale pare essere imporre, accanto a tagli iniqui, nuovi inutili consumi per sostenere le vendite, perché a noi “grandi” in primis è stato vietato di pensare ad un sistema diverso, nel quale si produce per consumare e non viceversa… e forse anche questo ha a che fare con la scuola.

D come Disinformazione. Anche la disinformazione, come la crisi, permea tutto. Si è già rilevato lo scorso anno, ad esempio che i tagli all’istruzione sono stati stabiliti molto prima che la crisi cominciasse e che quindi mettere le due cose in relazione non ha senso, ma la storiella ha continuato a circolare, come e più di prima. In effetti questa nuova stagione ha portato con sé poche balle nuove: siccome “repetita iuvant” si è continuato a riciclare le vecchie chiacchiere da bar, come un disco rotto: siamo gli ultimi in Europa, i professori leggono il giornale, le bidelle non lavano i bagni, stiamo rimediando ai guasti del ’68, premiamo il merito, la scuola non è un ufficio di collocamento, abbiamo potenziato il tempo scuola, le richieste delle famiglie saranno soddisfatte, potenziamo i laboratori, semplifichiamo l’offerta, non tocchiamo le classi successive alle prime, c’è più matematica, la riforma è condivisa, me l’ha detto pure un sondaggio, al 62%!

E come Espansionismo. La Patria taglia sull’istruzione, ma ha il suo Impero: circa 10.000 militari all’estero e non certo con le pezze al sedere, ma ben armati. Ci costano, del resto, molto più di un miliardo di euro ogni anno, con la benedizione di tutto l’arco costituzionale. Cifre precise, però, quando si parla del Ministero di La Russa, è difficile averne, di certo, pur mettendo da parte i costosissimi nuovi cacciabombardieri, per ogni 2 euro spesi per l’istruzione se ne spende almeno 1 per la “difesa”, che non è mica poco per un paese che non è attaccato da nessuno! Ci sono anche 200.000€ stanziati per corsi di formazione per militari su culture e tradizioni “diverse”, quando basterebbe evitare di buttare gli stranieri fuori dalle aule per farcele spiegare da loro, pure gratis! Ciò che è più grave è che il rinnovato spirito guerriero fa capolino nelle nostre classi, con i minuti di raccoglimento che ci vengono imposti per gli eroi caduti (mai un attimo di riflessione per le migliaia di civili uccisi dalle missioni di pace) e con i ricchi premi per il temino più bello dedicato ai nostri soldati “missionari”. Tempi duri per chi sognava di aiutare i giovani a costruire un mondo senza imprese coloniali.

F come Formazione. Quella che un sistema di Istruzione decente dovrebbe fornire al proprio personale e che invece in questo anno è stata assolutamente cancellata. Non mi risulta che per il prossimo futuro sia previsto nulla a questa voce. Il ministero è disponibile a formare a limite i propri dirigenti, ossia ad istruirli in incontri ufficiali e cene informali, per farne dei fedeli esecutori di ordini, pompieri di fronte alle preoccupazioni dei genitori, severi marescialli nell’affrontare eventuali insubordinazioni delle truppe.

G come Gelmini. Che Caligola abbia nominato senatore il proprio cavallo è poco più di una leggenda, anche perché al povero imperatore consentirono quattro soli anni di tirannia. Se, invece, il tuo regno dura quattro volte tanto puoi permetterti anche il lusso di fare senatori ballerine e clown. In questo circo il ministro dell’istruzione non è forse nemmeno quanto vi sia di peggio, ma bisogna ammettere, ad onor del vero, che di “cose di Scuola” non capisce davvero nulla. Eppure è la donna giusta al posto giusto ed infatti in questo abbecedario potrebbe trovare collocazione quasi ad ogni lettera. Alla B di bestia, perché, come ha fatto notare una precaria siciliana, descrivendo l’astensione per maternità come un privilegio da statali, la Gelmini ha dimostrato di ignorare che nessun animale abbandona deliberatamente i propri cuccioli prima dello svezzamento. Alla C di crisi, perché, se fai una riforma per fare cassa, intendersi di istruzione è un optional; molto meglio possedere un profilo da avvocato liquidatore d’azienda. Alla D di disinformazione, perché da 2 anni la ministra ripete gli stessi luoghi comuni, sempre uguali e sempre falsi. Alla F di formazione, perché nel nostro campo non ne ha nessuna, e così via… Insomma è la ministra giusta per i tempi che corrono, senza contare che il muro di gomma che frappone è ideale per deprimere chi vuole difendere la scuola pubblica, perché è umiliante avviare con lei un confronto, frustrante come fare quattro chiacchiere col cavallo di Caligola.

H come Habeas corpus. Ovvero quelle misure a tutela della libertà e del diritto alla difesa di ogni individuo, che in Inghilterra diventano legge nel 1679 e che in Italia sembrano essere state definitivamente cancellate, almeno per gli statali, nell’ottobre 2009 con il decreto legislativo 150, meglio noto con il nome di “riforma Brunetta”. Questa prevede, per il comparto scuola, la possibilità per i Dirigenti scolastici (a loro volta molto più ricattabili) di sanzionare i “sottoposti” con punizioni esemplari, potendo comminare fino a 10 giorni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione, con procedimenti tutti interni al singolo Istituto. In questo anno sono quindi già cominciati, nelle scuole, i processi farsa nei quali il Dirigente ricopre il ruolo di giudice unico e di accusa contemporaneamente. Nasce il dubbio maligno che si sia fatta una norma per punire il dipendente scomodo, più che il negligente, la libertà di pensiero, più che il fannullonismo. Poi, è vero, resta ferma la possibilità di fare ricorso, ma, da questo anno, solo rivolgendosi al giudice ordinario, con i tempi e i costi che molti hanno la disgrazia di conoscere.

I come Istruzione, come Insegnamento e come Imparare… un tema vasto insomma, che merita un ragionamento serio e complesso, che non sarei in grado di svolgere e per il quale non potrebbero bastare poche righe. Perché insegnamento e apprendimento nascono da una relazione, da un rapporto dialettico tra più figure, ognuna delle quali porta dentro di sé il proprio bagaglio di vissuto e perché la crescita, non solo degli alunni, avviene, se avviene, per il realizzarsi di complesse alchimie, che non sempre è possibile ricostruire, nemmeno “dopo”. Ogni giorno è, o dovrebbe essere, diverso dal precedente, bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione continuamente, di provare e riprovare e bisogna avere la capacità, da docenti, di osservare e ascoltare. Non insegna molto chi va avanti per “concludere il programma”, ignorando o fingendo di ignorare che pochi ti stanno ascoltando, che quello bravo a primo banco dorme dietro gli occhiali spessi e quelli in fondo si lanciano pregevoli aeroplanini di carta. Per far bene il proprio mestiere serve tempo, impegno, competenze diverse e, chiaramente, fondi. Non è un caso se ciò presuppone un’impostazione opposta a quella della “riforma Gelmini”. Ma, almeno, anche grazie alle leggi reazionarie, è ripartita una riflessione su questo tema centrale.

L come Lavoro. Operare in una scuola, in qualunque ruolo è quindi un lavoro, un lavoro serio e faticoso. Bisogna tornare ad affermarlo con forza, difendendo la dignità del nostro ruolo. Ci hanno spinti all’angolo di una polemica sterile, sui contratti da 18 o 25 ore, lasciando intendere che, privilegiati, svolgiamo un lavoretto più che un lavoro. Può pensarlo chi subisce le sirene della disinformazione e non sa quanto intense possono essere 18 ore e, oltre a quelle, quante ore di impegno richiede il costruire bene una Lezione, o quante ore, giorni, anni, di impegno duro ci sono voluti prima di potersi dire insegnante. Può pensarlo chi non sa quante ore di lavoro possono essere contenute in 60 minuti. Può pensarlo chi deve la sua fortuna al tocco di una bacchetta magica, per essere nato già “importante” o per essere stato scelto da un sovrano.

M come Merito. È lecito interrogarsi sui meriti dimostrati da personaggi come la Gelmini per poter ricoprire il loro ruolo ed è facile ironizzare su di lei, sul figlio trota di Bossi e su tanti altri amministratori della cosa pubblica con pari quoziente intellettivo, che pure vanno farneticando sull’argomento. La cosa grave è, però, che il tema del merito è un luogo comune vincente, che “piace alla gente”, fa facili consensi, soprattutto sul tema scuola, sia che si parli di premiare i docenti meritevoli, sia che il discorso si applichi agli studenti. Del resto chi potrebbe affermare che non sia giusto premiare i meritevoli? Peccato che nessuno sappia dire cosa sia e come si valuti il merito dei docenti e, visto che non stiamo parlando di conoscenza dei contenuti, perché da quel punto di vista siamo da sempre soggetti a diversi “gradi di giudizio”, se la bontà di un docente si misuri in base alla severità (numero di insufficienze?), o ai risultati ottenuti dai ragazzi (numero di sufficienze?), o al gradimento espresso dagli alunni (docente piacione?), o a quello espresso dal superiore (docente accondiscendente?) o tanti possibili parametri, ancora più stravaganti. Fatto sta che l’unica proposta su questo tema, il “ddl Aprea”, che, prendendo a modello il baronato universitario, intendeva creare un sistema piramidale nel quale la casta dei docenti esperti avrebbe avuto potere assoluto sui docenti dei due gradoni inferiori, è stata per il momento accantonata per l’affermarsi di idee leghiste ancora più reazionarie. Il “sistema Aprea”, del resto, lasciava intatte tutte le perplessità sul parametro da adoperare nel valutare il docente semplice e il novizio, cioè non risolveva la vera sostanza del problema, ma si preoccupava solo di creare nuova conflittualità nel mondo della scuola.

N come “No, non si fa politica a scuola!”. Anche questa affermazione pare andrebbe assunta come una verità universale, che in genere si accompagna all’altra: “se vuoi fare politica lascia la scuola e candidati alle elezioni!”. Secondo uno schema di pensiero diventato tanto consolidato, a destra e a sinistra, che pare non poter essere più discutibile, esisterebbe una divisione del lavoro secondo la quale alcuni possono fare i professori (e insegnare), altri gli studenti (e studiare), altri ancora, che so, i tornitori (e tornire) ed infine ci sarebbero i politici (abilitati a pensare e a governarci). E invece No: rivendichiamo il nostro diritto a voler pensare, discutere, gridare con forza le nostre idee, sapendo che non solo di studio, di insegnamento e di tornitura sappiamo molto più dei politici di professione, ma che anche su tutto il resto il nostro pensiero non ha nulla da invidiare al loro. Forse, anzi, è proprio il vivere nel modo reale, lontano dal circo della politica “che conta” e dal sistema di corruttele che a partire dal vertice si irradia sino all’ultimo posto di consigliere di circoscrizione, a fare di tutti noi, umili sudditi, le persone meglio legittimate ad esercitare la nobile arte della politica, sempre e ovunque.

O come Opposizione. In questi giorni abbiamo in Italia un’opposizione che si indigna e a volte si arrabbia finanche! Negli ultimi tempi abbiamo visto, finalmente, scaldarsi anche dei gran signori come D’Alema e Bersani, non si sa, invero, se per una vera redenzione o per una precisa strategia dettata dall’ultima batosta elettorale. Certo è che in tema di scuola anche questo anno una vera opposizione “nella politica che conta” non l’abbiamo vista e ci hanno pure risparmiato la barzelletta del referendum salva tutti, che andava per la maggiore lo scorso anno. Anche nei giorni dell’approvazione dell’ultima tranche della cosiddetta “riforma”, quella relativa alle scuola Superiori, non si è avuta notizia di nessuna levata di scudi. Certo perché farsi sentire non è facile quando si è minoranza, ma anche perché, quando il fannullonismo della maggioranza avrebbe consentito del sano ostruzionismo, l’opposizione “che conta” ha preferito tenere “un comportamento responsabile”. Oggi qualcuno vuole forse recitare la parte del difensore del popolo della scuola ma, pur perdendo il pelo, conserva il vizio e continua a svolgere il ruolo di pompiere, ricordandoci che, ahimè!, la riforma è ormai passata e dobbiamo impegnarci perché diventi se non bella, almeno passabile.

P come Precari. Protagonisti mancati dell’anno che si chiude. Molti hanno già perso il posto di lavoro, un numero superiore lo perderà il prossimo anno e poi tra due anni ancora. La riforma farà sentire i suoi effetti ancora per almeno quattro anni, e per i precari saranno nella migliore delle ipotesi quattro anni di ulteriore rinvio dell’ingresso in ruolo, di purgatorio in più e di bamboccionismo. La Scuola stessa, senza turn over o con i fondi tagliati a zero, sarà più precaria. Abbiamo tutti sperato nella fiammata dell’alba di questa stagione e forse è il caso di interrogarsi sul perché sia rimasto un fenomeno di movimento circoscritto ed in fondo elitario, su cosa non ha funzionato. Forse la disperazione da sola non basta a far crescere un movimento o forse, in questo Paese, le pensioni dei genitori, per quanto povere, riescono ancora a sopperire alle miserie di giovani e non più giovani. Allora anche il prossimo attacco a pensioni e liquidazioni finirà per danneggiare i precari e renderli ancora più disperati. Ma non è detto che nemmeno questo basti a risvegliare le coscienze dei più.  Il precariato è ciò che un tempo avremmo definito “sotto-proletariato”: una massa variegata, a volte ammansibile con promesse di piccoli tornaconti, alla lunga controproducenti, come i “patti territoriali” siglati in questo anno da alcune amministrazioni regionali, altre volte addirittura arruolabile in progetti in contrasto con i propri stessi interessi. La ricattabilità della nostra “sotto-categoria” spiega il perché delle mille paure e della latitanza della maggioranza dei precari dalle iniziative di movimento. Li vedremo in piazza se e quando si sentiranno non solo più disperati, ma anche più forti.

Q come Qualità e Quantità. La barzelletta più simpatica dell’anno è quella di chi ci ha spiegato, esperti del ministero dell’istruzione in primis, che siccome aumentare il tempo scuola non è garanzia di qualità, allora si può pensare che diminuire l’orario scolastico sia il modo migliore per dare ai ragazzi il tempo per studiare a casa. Insomma si sono inventati l’equazione meno quantità = più qualità, ardita e affascinante. La cosa peggiore è che l’affermazione si sostanzia con la constatazione che i ragazzi dei licei, che studiano meno ore (ma che hanno quasi sempre basi più solide e, spesso, grossi aiuti a casa) hanno più conoscenze. La stessa cosa non si potrebbe dire laddove non sono in gioco tanto le conoscenze, quanto quelle che si definiscono abilità e competenze e cioè, è difficile difendere la stessa equazione per gli Istituti Tecnici e Professionali. In quei casi, però, si sono inventati un’altra barzelletta: le 32 ore future sarebbero più delle 36 del passato, perché la riforma ha modificato le indicazioni sulla durata dei singoli moduli orari. È imbarazzante dirlo, ma queste indicazioni non sono da nessuna parte, cioè quanto affermano le fonti ministeriali è semplicemente falso. La verità è che per istituti tecnici e professionali si conferma un taglio medio dell’8-10% del tempo scuola e che questo taglio avverrà anche nelle classi successive alle prime, anche se la Gelmini, forse per ignoranza, continua a dire che non è vero.

R come Recupero. Per i ragazzi e le ragazze che restano indietro non vi è possibilità alcuna di recupero o redenzione. I corsi che dovrebbero servire allo scopo costano, e soldi non ce ne sono! E poi la scuola del merito, per gli alunni, significa proprio questo: premiare i bravi, come ha fatto Formigoni a gennaio nel forum di Assago, curarli e crescerli come è giusto fare con il fior fiore dell’italica e padana giovinezza, e scaricare gli asini, o meglio mandarli a lavorare a 15 anni, perché anche questo s’è inventato il governo in questo anno fantastico. La disoccupazione cresce, i trentenni sono quasi sempre a casa, e si sentiva la mancanza di una legge nuova per favorire anche in Italia lo sfruttamento minorile, perché poter plasmare uno schiavo di 15 anni, senza doverlo importare dall’Africa, è per l’imprenditoria dinamica e moderna un sogno che si realizza.

S come Sostegno. Anche dai lacci e lacciuoli della retorica buonista, che ci vuole intenti a preoccuparci dei disabili, l’Italia del futuro vorrebbe liberarsi, anche se in questo caso fa un po’ più fatica. Sugli insegnanti di sostegno non son riusciti ad operare tagli, anche se, grazie all’iniziativa illuminata di Fioroni, non un docente in più si è assunto malgrado l’aumento nel numero dei disabili. L’effetto non poteva essere che uno: i novantamila docenti di sostegno si sono dovuti “spalmare” su un numero maggiore di ragazzi e ragazze, dedicando ad ognuno meno tempo. A fine febbraio la Corte Costituzionale si è pronunciata in modo inequivocabile contro la legge del progressista Fioroni, sostanzialmente intimando al governo la “rimozione del blocco alle assunzioni dei docenti di sostegno”. Il governo ha risposto con un sostanziale e fiero “Me ne frego” e il prossimo anno i 90.000 saranno sempre 90.000.

T come Trovata geniale. Contro questo ulteriore imbarbarimento c’è chi si è arreso pensando che fosse ormai inutile “sbattersi” come novelli Don Chisciotte e altri hanno pensato che, pure se fosse, è sempre più edificante recitare la parte del cavaliere della Mancia che dimostrare la personalità di un mulino a vento. Nel combattere le nostre battaglie solitarie o quasi, però, ci siamo fatti trascinare spesso dai nostri sogni, immaginando che, in fondo, sarebbe stato sufficiente trovare l’idea giusta per vincere le ingiustizie. Allora se per alcuni il tale sciopero era la chiave di volta per “trascinare le masse”, per altri poteva essere la data manifestazione spettacolare e per altri ancora l’occupazione a sorpresa, o, in ultimo, lo sciopero degli scrutini. Ognuno ha cullato, come è giusto, con affetto la propria idea, ma a volte non con l’intenzione di coinvolgere intorno ad essa anche gli altri più o meno solitari cavalieri, ma quasi, all’opposto, di sottolineare la propria alterità, o di marcare il territorio. È sempre più facile dirsi che la propria impresa non è riuscita per colpa di Sancho Panza piuttosto che ammettere che sin dall’inizio si era trattato di un miraggio. Per me la trovata geniale non esiste, tutte le iniziative citate e mille altre ancora vanno bene, se si iscrivono in un percorso, ancora una volta in un Lavoro paziente, che è di ricucitura e di coinvolgimento di chi ancora non osa muoversi.

U come Ultima fermata. Mille volte ce lo siamo detti: se la barbarie avanza su questa strada, se fa un ulteriore passo, beh, allora avrà varcato il punto di non ritorno. Anche nella scuola, anche e soprattutto in questo anno, abbiamo sentito che l’operazione di smantellamento del sistema pubblico d’istruzione era giunta all’ultima fermata. Se, però, lo pensassimo davvero dovremmo avere la coerenza di dire a chi ci ascolta che è inutile continuare, che l’ultima barricata è stata abbattuta, che si salvi chi può. E invece no, queste cose lasciamo che le dicano quelli dell’opposizione che conta, insomma quelli che le barricate non si sono mai sporcati le mani a costruirle. Non lo facciamo, credo io, non per una vocazione al martirio, ma perché in fondo sappiamo che c’è sempre una trincea da scavare, che lo dobbiamo a quei bambini rom e a quei ragazzi e ragazze che la scuola della Gemini vuole bocciati con un marchio indelebile di vergogna, perché tra noi c’è chi si è fermato ad ascoltare e sappiamo cosa c’è dietro i loro insuccessi scolastici e dietro le esplosioni di rabbia. E non è solo un’iniziativa di retroguardia, o di resistenza: nel prossimo futuro il trattamento riservato alla scuola si estenderà a tanti lavoratori, forse sarà più difficile farci credere che è colpa del destino o dell’uomo nero, e chissà che non nasca proprio dalla crisi la voglia di costruire qualcosa di nuovo. Non è detto, ma non è escluso.

V come Valori. Senza voler essere moralisti bisogna sapere che i valori contano. Soprattutto contano nella scuola. È un discorso che, chiaramente, si pone in relazione con i discorso del merito, perché se “misuro” in decimi un ragazzo o un docente devo sapere quali sono i valori che “contano”. E, ancor prima, ha a che vedere con la difficoltà di insegnare, di costruire un dialogo con i ragazzi, anche a partire da valori che si credevano acquisiti, come il rispetto per la dignità di tutti gli uomini, di qualunque colore, il no alle aggressioni militari, il rispetto per l’infanzia, la parità dei diritti delle donne… È una piccola, grande guerra quotidiana, tutta in salita, perché ognuno di questi principi è messo in discussione dal “sentire comune”. E dire che in Italia, in fatto di valori, abbiamo un’autorità che si auto-proclama infallibile, quella Chiesa cattolica che in fatto di scuola si è distinta per la cura degli interessi esclusivi dei docenti di religione e delle proprie scuole private, disinteressandosi e giovandosi dell’immiserimento di quelle pubbliche. Una chiesa che mai come quest’anno ha fatto pesare il proprio appoggio politico ad una coalizione, solo per dirne un paio, composta da gente che ha promosso il “bianco natale” per buttare sulla strada chi ha la pelle “diversa” e guidata da uno che non solo si accompagna con fierezza con minorenni e escort a pagamento, ma che suggerisce alle ragazze italiane di assicurarsi un buon futuro “dandosi” a qualcuno che abbia soldi. Visti i valori promossi da chi ci guida e ci conduce, con la benedizione della Santa Sede, è chiaro che il ruolo di educatori si trasforma in una titanica impresa.

Z come “aggregato Z”. Allora è meglio non pensarci e concludere con una cosa leggera, simpatica e divertente. La scuola è in rosso e il governo ha deciso che, oltre a tagliare i famosi 8 miliardi previsti dalla legge 133, agirebbe come coloro che son fessi restituendo soldi a chi non ti può fare niente. Quindi non salderà mai i debiti contratti con i diversi istituti scolastici italiani, che vantano crediti per svariati milioni per anticipi versati a supplenti, commissari d’esame e altro. Un simpatico umorista del ministero, quindi, ha suggerito pochi mesi fa di iscrivere a bilancio queste famose cifre come “avanzo determinato da residui attivi” e ha ordinato che quelle cifre vengano “inserite opportunamente nell’aggregato Z”, una lettera che la dice lunga sull’ordine di priorità che il governo attribuisce alla necessità di restituire il maltolto.

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