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Abissi pedagogici

Creato il 19 aprile 2011 da Presidenziali @Presidenziali
Abissi pedagogiciUn film che si interroghi sulle ragioni della violenza o un film sulla violenza? Entrambi. In un mondo migliore della danese Susanne Bier, parte dall'interessante assioma che la violenza è latente all'interno dell'uomo e ferisce tanto nell'esplecarsi quanto nell'opporcisi ad essa. E lo fa attraverso due storie di famiglie in crisi sviluppando l'intreccio nelle logiche educative genitori/figli. Ma non solo. Il film si spinge oltre improntando un'acuta riflessione sul compito pedagogico del genitore e la difficoltà di educatore all'interno di una società che amplifica le distanze e di conseguenza le incomprensioni. Le esperienze di due famiglie in difficoltà, l'una per la lontananza tra i due genitori entrambi medici ma praticanti reciprocamente in Africa e Danimarca; l'altra con un padre escluso dalla vita del figlio, già autonomo e lucido calcolatore per necessità, con la madre appena morta di cancro. Elias, l'orfano di madre, diventa amico di Christian figlio della coppia di medici e insieme costituiscono un'unità compenetrante a orologeria facendosi forza l'un l'altro, pronta a tutto pur di non sottostare alla legge del più forte (in questo caso del più debole). La Bier affonda il coltello nella piaga contrapponendo la logica buonista dell'insegnamento in vigore, alla cruda realtà (in una scena a trazione anteriore) di un padre che si fa schiaffeggiare passivo da un uomo più ignorante (manescamente parlando) e interpretata dai figli come una mancanza di coraggio invece che un insegnamento alla non violenza e all'uso della dialettica. Il film prosegue su questi piani: in Africa, Anton (un bravissimo e corrucciato Mikael Persbrandt) combatte contro l'Africa e le sue contraddizioni (ma soprattutto contro se stesso e le sue convinzioni etiche), scontrandosi con le angherie di un carnefice che squarcia i ventri delle donne incinte per scommessa, mandandone un discreto numero all'aldilà, finchè non se lo trova davanti e nella logica deontologica dell'assistenza lo cura, ma poi... Lontani mille miglia all'altro capo del mondo in Danimarca si consuma la violenza di Elias, faccia da bravo ragazzo, fisico mingherlino ma mentalità di un pragmatismo estremo. Se ci sono colpevoli in questo gioco famelico all'ingrosso la Bier li individua nei genitori, ma colpevoli di esserlo, un po' come il peccato originale. Molto rilievo viene dato al lato psicologico delle azioni e la riflessione interiore delle conseguenze lievitando su momenti estatici di commistione uomo/spazio, uomo/natura, agevolati da un supporto sonoro dilatato e intimo (ovvero scene molto belle di paesaggi con ottimo accompagno musicale). Tutte sopra le righe le interpretazioni e la fotografia accesa. La tensione, alta, cresce sovvertendo il più delle volte tutte le gerarchie familiari tramite l'uso proprio o improprio della violenza (non solo fisica). Ci si aspetta un finale devastante quando invece a trequarti film la luce del sole fa capolino nel secco e intricato arbusto narrativo cospargendo di acqua e sapone un happy ending troppo sbrigativo e risolutivo. Avrebbe potuto trattarsi della risposta europea al capolavoro australiano di Animal Kingdom, si ritrova invece ad essere un buon film sciupone nel finale. Oscar 2011 miglior film straniero.
voto: 7

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