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Afghanistan tra elezioni e ritiro ISAF: intervista a Stefano Ruzza

Creato il 06 aprile 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Denise Serangelo

Si sono chiuse da poche ore i seggi in Afghanistan, per quelle che sono state le prime elezioni presidenziali dopo il decennio di Hamid Karzai. Tra accuse di brogli e attacchi talebani (almeno 140 secondo le stime del governo centrale), circa 7 milioni su 12 aventi diritto si sono recati alle urne. Non è solo un voto ma il volto di un Paese che ambisce al cambiamento e che spera di guardare al futuro in modo diverso e più consapevole.

Il 2014 è un anno decisivo non solo per Kabul, ma anche per il contingente di forze internazionali che da un decennio è stabile nel Paese per permettere al Governo di rinsaldare il rapporto autorità centrale-popolazione e mantenere al contempo una cornice di sicurezza in cui operano le stesse autorità centrali e le organizzazioni internazionali.

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Circa il futuro del Paese e dell’International Security Assistance Force (ISAF), ne abbiamo discusso con il Professor Stefano Ruzza, docente di “Conflitto, sicurezza e state-building” presso l’Università degli Studi di Torino, nonchè Head of Research di T.wai – Torino World Affairs Institute. Oltre ad essere stato Visiting Scholar presso la Cornell University di New York, dirige la summer school “Engaging Conflict: Prevention, Management and Resolution” ed è inoltre responsabile della traduzione italiana del SIPRI Yearbook Summary.

Professor Ruzza, qual’era la situazione dell’Afghanistan prima dell’intervento americano del 7 Ottobre 2001?

In confronto a gran parte della storia afghana, prima dell’intervento militare del 2001 il Paese si trovava in una condizione di relativa stabilità. Dopo il ritiro sovietico del 1989, infatti, l’Afghanistan ha attraversato un lungo periodo di guerra civile e di scontro tra i signori della guerra, di fatto giunto al termine solo con l’ascesa al potere dei Talebani del Mullah Omar nel 1996 (anno in cui conquistarono la città di Kabul). In coincidenza con l’affermazione del regime talebano in Afghanistan si trasferì anche la struttura portante di al-Qaeda, la rete terroristica guidata da Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri. Questo “trasloco” non era certo casuale: è proprio nella lotta anti-sovietica dei Mujaheddin afghani che al-Qaeda affonda le sue radici. Non vanno dimenticati gli alti costi associati a quella relativa stabilità: a livello interno, l’Afghanistan era retto da uno dei regimi più repressivi e meno attenti ai diritti umani al mondo, mentre internazionalmente il governo era riconosciuto soltanto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. D’altro canto, non vanno dimenticate nemmeno le ragioni di quella ascesa e di quella stabilità: i Talebani erano riusciti a imporsi sui signori della guerra perché disciplinati e militarmente competenti, elemento questo che ha contribuito a mantenerli in sella fino all’intervento internazionale del novembre 2001. Inoltre, il governo talebano era stabile anche perché in grado di incorporare caratteristiche salienti (etniche e religiose) per essere accettato dalla maggioranza Pasthun e perché in grado di soddisfare le esigenze strategiche del Pakistan – cioè garantire profondità strategica e un sostrato politico impenetrabile per il nemico indiano.

L’Italia contribuisce in modo importante al contingente multinazionale che supporta la transizione del Paese: potrebbe illustrarci l’impegno di Roma in Afghanistan e come questo è cambiato nel corso degli anni?

Quello afghano è stato per l’Italia repubblicana un teatro di massimo impegno. Ciò si riflette sia in termini di durata – ormai oltre il decennio – che di numeri: il nostro Paese è stato stabilmente attorno alla quarta posizione come contributore di forze nel solo quadro di ISAF. Va poi ricordato che in Afghanistan l’Italia non è impegnata solo in ISAF – che pure è stata e resta la missione più importante – ma lo è anche in EUPOL (il programma di formazione della polizia, lanciato dall’Unione Europea nel 2007) e lo è stata nell’ambito di Enduring Freedom (sia con un contributo navale, già nel 2002, e poi terrestre, con le Task Force Nibbio e Nibbio 2).

Nel quadro di ISAF meritano particolare menzione il comando assegnato al nostro Paese del Regional Command-West, responsabile per le provincie occidentali di Herat, Badghis, Farah e Ghor, nonché la guida del Provincial Reconstruction Team (PRT) di Herat, struttura dedicata ad agevolare lo sviluppo locale e al CIMIC (Cooperazione Civile-Militare).

Da questa pluralità di contributi e dalla lunga durata dell’impegno, discende un ampio ventaglio di attività che sono state condotte dalle nostre forze armate nel tempo: si passa dalle attività maggiormente cinetiche (contro-terrorismo e interdizione d’area) a quelle più orientate alla popolazione con l’ausilio di personale civile che affianca i nostri soldati, passando per l’addestramento, il mentoring e l’advising delle forze armate e di polizia afghane.

La missione ISAF sembra aver perso nel corso degli anni qualasiasi tipo di legittimità in Italia e nella grande maggioranza dei Paesi che compongono il contingente internazionale. Perché l’impegno in Afghanistan resta ancora importante?

Le operazioni militari che durano a lungo tendono a “stancare” l’opinione pubblica e le élite politiche, generando una sorta di moto di rigetto: si tratta di uno sviluppo pressoché inevitabile.

In particolare, con riferimento all’Italia, vale la pena citare due buone ragioni per sostenere la continuità del contributo militare nel tempo – anche oltre il 2014 – nonostante le prospettive non propriamente rosee della situazione afghana. In prima battuta, i progressi ottenuti, per quanto fragili, possono consolidarsi soltanto cercando di garantire una transizione la più morbida possibile. Il nostro Paese è stato un contributore di primo piano ed è difficile immaginare che possa essere rimpiazzato da qualcun altro: resta dunque un attore imprescindibile nel processo di stabilizzazione. In secondo luogo, non va dimenticata l’importanza che per l’Italia ha la partecipazione nelle missioni militari internazionali, in un ruolo di primo piano. Si tratta di una politica di “diplomazia militare” che garantisce al nostro Paese il mantenimento di una posizione di prestigio a livello internazionale.

L’ISAF ormai dal 2011 sta portando avanti l’exit strategy lasciando in mano agli afghani il territorio prima controllato da soldati dell’allenza internazionale. Secondo Lei è stata una “strategia” adeguata o avrebbe dovuto tener conto di altri fattori?

A mio giudizio il peccato originale dell’intervento internazionale in Afghanistan (e dunque non soltanto di ISAF) è stato confondere i Talebani con al-Qaeda. I due soggetti erano certamente collegati, ma non si esaurivano l’uno nell’altro. Oggi al-Qaeda è stata pesantemente ridimensionata in Afghanistan, ma i Talebani sono ancora ben presenti e intenzionati a riprendersi il ruolo che avevano in passato. Allo stesso tempo, i gruppi di opposizione che erano stati marginalizzati dall’ascesa dei Talebani oggi sono nelle condizioni di poter riprendere la partita, dato l’indebolimento che proprio i Talebani hanno patito. Il progressivo alleggerimento di ISAF (e delle attività militari internazionali più in generale) ha significato lasciare più spazio di manovra alle forze di opposizione.

Credo si sia trattato di uno sviluppo inevitabile, dato il progressivo erodersi del capitale politico necessario a sostenere un’operazione così ampia per un tempo così lungo; tuttavia, questo ha già portato a recrudescenze di violenza, un fenomeno che con tutta probabilità si ripeterà ancora in futuro. In sintesi, ci troviamo in una situazione che contiene tutti i germi per una ripresa della guerra civile, sulla falsariga di quanto già avvenuto dopo il ritiro dei sovietici. Se questo avverrà o meno, dipende anche (ma purtroppo non soltanto) dalla volontà della comunità internazionale di continuare ad investire uomini e risorse economiche per il futuro Paese.

Crede che la storica decisione di Hamid Karzai di voltare le spalle agli USA non firmando il Bilateral Security Agreement (BSA) sia imputabile ad un crescente nazionalismo o è solo un’uomo che crede nel futuro del suo Paese?

Al di là dell’enorme impopolarità dei raid aerei e dei loro danni collaterali, Karzai è ben consapevole che qualsiasi mossa di consolidamento della situazione in Afghanistan passa anche attraverso l’accordo coi Talebani, una strada che per essere percorsa richiede che il Presidente afghano si distanzi dagli Stati Uniti e dagli stranieri in generale.

Tuttavia, ritengo che la decisione di Karzai abbia a che fare anche con gli interessi del suo clan, e non sia dunque soltanto una manifestazione di genuino nazionalismo. Il clan Karzai ha interessi ben radicati nell’area meridionale del Paese, in particolare nella zona attorno a Kandahar: in un contesto in cui il Presidente attuale dovrà lasciare le redini del Paese, le sue dichiarazioni sono volte anche a tutelare la tenuta sul territorio dei suoi consociati e delle loro attività, rendendo più chiaro possibile la loro non associazione con gli stranieri.

La votazione del 5 Aprile viene descritta come una svolta. Secondo Lei – con i dovuti supporti da parte dei Paesi ONU e della stessa NATO – potrebbe essere un nuovo inizio per l’Afghanistan o sarebbe più realistico pensare ad un declino in peggio?

Francamente, sono pessimista. L’Afghanistan è tutt’altro che stabile o pacificato, come dimostrano anche i recenti attacchi intimidatori che hanno avuto luogo a Kabul, e l’impegno della comunità internazionale andrà inevitabilmente scemando nei prossimi anni.

Dubito peraltro che le elezioni saranno foriere di una significativa svolta, al di là di una uscita di scena di Hamid Karzai da guida del Paese. Anche la recente rinegoziazione al ribasso dei diritti delle donne, comprensibile in una logica di scambi elettorale e dunque come tentativo di attrarre i gruppi di opposizione all’interno del processo, contribuisce a rendere evidente quale strada verrà seguita nel prossimo futuro.

Plausibilmente, ci saranno dei regressi, soprattutto nelle aree più periferiche del Paese e maggiormente sotto il controllo delle forze di opposizione. In una condizione di insicurezza generale è difficile immaginare che le condizioni di vita dei cittadini e il rispetto dei diritti delle donne possano migliorare.

Chi si reca in Afghanistan regolarmente sostiene che sia ancora un Paese dilaniato dalla corruzione, dalle ingiustizie e da una situazioni di grave degrado. Quali potrebbero essere degli interventi validi per migliorare questa situazione?

A mio giudizio, il tassello imprescindibile, sul quale qualunque progresso – dai diritti umani al contenimento della corruzione – deve essere fondato è la costruzione di uno Stato che sia stabile e credibile. In questo senso, l’Afghanistan nasce da condizioni di debolezza strutturale, poiché fu creato non per essere realmente “Stato” ma piuttosto per essere soltanto un cuscinetto, una “buffer-zone“, tra le aree di influenza degli Imperi russo e britannico.

Data questa pesante eredità geopolitica, non sorprende notare la grande frammentazione (culturale, etnica, linguistica, ecc.) che caratterizza il Paese e la sua tendenza a cadere preda di conflitti, alimentati tanto dall’interno quanto dall’esterno. Paradossalmente, un principio di governo stabile e centrale fu istituito proprio dai Talebani, però poi rimossi dall’intervento militare internazionale. Nonostante molta parte degli sforzi di questi anni siano stati rivolti ad attività di cosiddetto state-building, difficilmente la comunità internazionale e le opinioni pubbliche occidentali possono accettare l’idea di restaurare un regime non democratico e non rispettoso dei diritti umani, anche qualora questo fosse efficace.

L’alternativa, tuttavia, è del pari impopolare: significa essere disposti a puntellare dall’esterno per un tempo indeterminato un regime di altro genere, proprio come si è fatto con Karzai in questi anni. Si tratta di uno scenario parimenti implausibile.

Secondo Lei quello afghano è un Paese maturo per poter vivere senza il supporto delle truppe NATO?

Certamente no, tant’è che l’impegno dell’Alleanza è previsto anche dopo il 2014, con l’operazione ”Resolute Support”. Questo perché la qualità delle forze di sicurezza afghane (ANSF) è ancora dubbia: una parte di queste potrebbero cambiare casacca (l’infiltrazione dei gruppi di opposizione nelle ANSF è testimoniata, tra le altre cose, dai numerosi incidenti di tipo “Green on Blue“), un’altra parte disertare, e la frazione leale trovarsi comunque a mal partito contro i numerosi gruppi d’insurrezione ancora attivi sul territorio. Data questa situazione, la missione di advising “Resolute Support” intende migliorare la qualità delle ANSF anche oltre il 2014 e il ritiro di ISAF. Congiuntamente, aumenterà in parallelo anche l’attività delle forze speciali (soprattutto americane) che agiscano al fine di “allentare” il più possibile la pressione sulle forze di sicurezza locali.

Sicuramente il futuro riserva grandi cambiamenti al Paese dei papaveri e della guerra e altrettanti sono gli interrogativi che attendono l’Afghanistan. Il 5 Aprile è solo l’inizio di un lungo periodo che l’Italia è pronta ad affrontare insieme all’Afghanistan sia in termini diplomatici che militari.

* Denise Serangelo è Dottoressa in Scienze Strategiche (Scuola di Applicazione e Studi Militari dell’Esercito – Università di Torino)

Photo credits: ISAF Media/Flickr

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