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African Dream, dal fango al grattacielo

Creato il 30 settembre 2011 da Dragor

Kampala   "E’ da ingenui… no, da stupidi pensare di poter vivere senza i diritti della cittadinanza, ma i rifugiati sono così disperati che ti ringraziano anche se gli sputi addosso”  dice Kelvin, un potente businessman ugandese di origine rwandese. Come molti rwandesi, Kelvin è nato in esilio, quando la sua famiglia si era rifugiata in Uganda per sfuggire alle persecuzioni della dittatura di Habyarimana.  Con il nuovo regime, potrebbe rientrare in Rwanda, ma preferisce restare in Uganda dove ha costruito la sua vita. Accenna alla città che ci circonda, visibile dalla terrazza del ristorante al secondo piano di uno degli inumerevoli centri commerciali  di quel miscuglio di New York, Calcutta, Manila, Il Cairo, Honk Kong che si chiama Kampala. “Questo,  è l’African Dream. Qui nessuno ti guarda in faccia, basta che tu abbia voglia di lavorare. Cominci da lì…” indica la strada in basso, dove la spazzatura bagnata dalla pioggia marcisce nelle buche esalando fetori pestilenziali in mezzo al formicolio di passanti “e arrivi lì.” Indica la sommità di un vicino grattacielo. “A Nshugerezi, dove eravamo rifugiati, ci davano da mangiare. Oggi so che il cibo veniva dall’Alto Commissariato per i Rifugiati  ma adoravamo la gente che ci dava le razioni, li chiamavano i nostri salvatori. Offrivamo loro bevande e figlie, come dire che dovevamo vendere una parte delle nostre piccole razioni per comprare i drink  e prestare loro le figlie perché se le portassero a letto.  Però eravamo felici. Le razioni erano principalmente sorgo, ma a volte ci davano pesce. Talmente secco e salato che dovevamo bollirlo più volte prima di poterlo mangiare. E anche così, non riuscivamo a togliere tutto il sale, con il risultato che morivamo di sete.” 

   Però ci consideravamo privilegiati. Certo, molti di noi non potevano andare a scuola, dato che pochi genitori potevano permettersi di pagare le tasse scolastiche. Ma che  cosa conta la scuola, quando si ha la pancia piena?   Se ci ammalavamo, dipendevamo dai nostri cari “guardiani della salute” che avevano soltanto pochi medicinali per migliaia di rifugiati, così potevamo soltanto pregare il cielo di non ammalarci. Di ospedali, nemmeno parlarne. In ogni caso molti di noi conoscevamo l’arte di sopravvivere nella giungla, specialmente quelli che venivano dallo Zaire. I nostri genitori ci davano ogni mattina qualche sorso di urwagwa (vino di banane) per  proteggerci dalla malaria. Per  ogni malattia c’era l’erba appropriata. 

  Così in generale eravamo una comunità felice che si godeva la vita senza versare una goccia di sudore. A volte riuscivamo perfino a  inserire di straforo  qualche nome nella lista dei membri della famiglia.  Ma un mattino il nostro piccolo mondo ci è crollato addosso. L’Alto Commissariato ci ha tagliato i viveri. Da un momento all’altro siamo passato dal riso al pianto. E allora abbiamo aperto gli occhi: niente paese, niente cittadinanza, niente autonomia, niente comunità, niente origine, niente razza, niente identità. Eravamo zero. Lo zero assoluto.

   Ecco perché mi fanno pena quei Rwandesi che preferiscono rimanere rifugiati a vita o lasciarsi guidare dalla cosiddetta opposizione rwandese in esilio. Avendo commesso dei crimini, quei politici li usano come scudi per proteggersi.” “Ma tu sei rimasto in Uganda”, gli faccio notare. “Sì, ma ho il mio passaporto.” Si fruga in tasca, estrae un passaporto rwandese e me lo mostra con un sorriso  radioso.

  Dragor


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