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Alfano non poteva non sapere

Creato il 17 luglio 2013 da Antonioriccipv @antonioricci

Non si possono consegnare in questo modo una donna e una bambina, rifugiati politici, al dittatore che le cerca è una palese violazione dei diritti umani. Alfano se ne deve andare. Non poteva non sapere.

Una foto a volte spiega moltissimo

Una foto a volte spiega moltissimo

Riportiamo l’intervista di Giuseppe Procaccini, capo di gabinetto del ministro dell’Interno Angelino Alfano, dimessosi come agnello sacrificale.

«Guardi — dice al telefono — Non sono abituato a smentire notizie vere. Quindi le confermo che mi sono dimesso ieri sera (lunedì, ndr).

Ma le dico anche che il mio è un gesto di buona volontà per il bene dell’Amministrazione. Per svelenire questo incredibile clima. Ora sono fuori dal ministero per meditare un po’. Diciamo che adesso il mio stato d’animo è particolare. Domani, magari, tornerò nel mio ufficio per raccogliere le mie cose».

Di andarsene glielo avrebbe chiesto comunque Alfano sulla base della relazione Pansa.

«Ho preferito farlo prima. Non aspettare. Anche perché fosse chiaro che non ho nulla da rimproverarmi, che la mia coscienza, per quanto amareggiata, è serena. E comunque, mi creda, non avevo né ho bisogno della relazione del capo della Polizia per sapere come sono andate le cose. Io so perfettamente cosa è successo ».

E come sono andate le cose?

«Il 28 maggio, nel tardo pomeriggio, inizio sera, dopo che era già stato in Questura, ho ricevuto nel mio ufficio al Viminale l’ambasciatore kazako, che mi ha rappresentato la situazione di questo pericoloso latitante che si sarebbe trovato in una villa a Casal Palocco. E ho quindi immediatamente interessato della questione il Dipartimento della Pubblica sicurezza nella persona del dottor Valeri. Ho fatto da tramite. Nient’altro».

Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?

«Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata».

E lei, dopo aver incontrato l’ambasciatore, riferì al ministro Alfano quanto le aveva chiesto sul conto di Ablyazov? Che della questione si sarebbe occupato il Dipartimento?

«Sì. Gliene accennai successivamente ».

Quando?

«Non la sera del 28, perché ricordo che l’incontro con l’ambasciatore al ministero finì molto tardi. Direi dunque il giorno successivo. Il 29».

E lo fece per iscritto?

«Verbalmente. Penso sia normale ».

Dunque, il 29 maggio, il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante. Corretto?

«Si. Di un pericoloso latitante».

Possibile che nessuno al Viminale, né lei, né al dipartimento, sapessero che Ablyazov era un dissidente kazako?

«Io non avevo questa informazione. L’ambasciatore kazako mi parlò soltanto di un pericoloso latitante. E mi risulta che anche nelle banche dati Interpol sul soggetto in questione non vi fossero informazioni diverse dai reati per i quali era ricercato».

Il 29 la frittata è fatta. La polizia, infatti, non trova Ablyazov, ma ferma sua moglie e la sua bimba di 6 anni.

«A me questo non venne comunicato ».

Non venne comunicato cosa?

«Non mi venne comunicato del fermo della signora e di sua figlia. A me venne solo comunicato dal Dipartimento, in modo sintetico, che la ricerca del latitante in questione aveva dato esito negativo. Che il soggetto non era stato trovato in quella casa. Nulla di più. E per me, quindi, la storia finiva lì. Non c’erano ulteriori notizie che io dovessi comunicare a chicchessia».

Della signora Shalabayeva quando ha saputo?

«Dai giornali».

Dai giornali?

«Dai giornali».

Agli atti dell’inchiesta risulta che il 31 maggio, poco prima che l’aereo con Shalabayeva e sua figlia decollasse da Ciampino, il consigliere di ambasciata kazako Nurlan Khassen, che era sulla pista, per cinque volte compose dal suo cellulare il suo numero di telefono, mostrando anche ai poliziotti il suo biglietto da visita.

«Non ho parlato con nessuno quel pomeriggio della signora Shalabayeva. E ripeto che ho appreso della questione solo quando divenne di pubblico dominio».

E perché il Dipartimento le ha taciuto della donna?

«Non lo so e non voglio addossare colpe a nessuno».

Se lei, come dice, non ritiene di avere responsabilità, perché allora si dimette?

«Perché l’amministrazione di cui faccio parte e questo nostro povero Paese hanno bisogno che nelle istituzioni non venga meno la fiducia e l’autorevolezza. A questo Paese va data una mano. E la mia decisione di lasciare quella che è stata la mia vita vuole essere un contributo al recupero della serenità».



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