di Daniele Grassi
La visita a Pechino nei primi giorni di novembre da parte del Primo Ministro pakistano, Nawaz Sharif, giunge in una fase estremamente delicata per il Pakistan e per l’intera regione, e rappresenta un importante banco di prova per l’alleanza tra i due Paesi.
Il governo di Islamabad fu tra i primi a stabilire relazioni con la Repubblica Popolare Cinese, nel 1950. Uniti dal comune obiettivo di contrastare le ambizioni regionali dell’India, Pakistan e Cina hanno negli anni rafforzato la loro alleanza a livello politico e militare, divenuta oramai elemento imprescindibile per l’analisi delle dinamiche regionali. Anche dal punto di vista economico i due Paesi hanno ottenuto buoni risultati: dal 2009 la Cina rappresenta il principale partner commerciale del Pakistan, con un volume di scambi che nel 2013 ha raggiunto il valore di 15 miliardi di dollari. È proprio in questo settore che si concentrano le maggiori aspettative di entrambi i Paesi. Tuttavia, a dispetto della comune volontà di sfruttare al massimo il grande potenziale economico esistente, permangono significativi ostacoli, che stanno sempre più allargando lo scarto tra ambizioni e realtà.
In questi ultimi mesi il governo cinese ha mostrato una crescente insofferenza nei confronti dell’ambigua politica pakistana di contrasto al terrorismo. Ad agosto il quotidiano China Daily, organo pubblico di stampa, ha rivelato i legami esistenti tra i gruppi terroristici attivi nella provincia dello Xinjiang e la galassia jihadista che opera nelle aree al confine tra Pakistan e Afghanistan, pubblicando le confessioni di Memetuhut Memetrozi, co-fondatore del Movimento Islamico del Turkestan Orientale, il quale avrebbe ammesso di aver ricevuto il proprio indottrinamento ideologico presso una madrasa pakistana. Si è trattato di un evento senza precedenti. In passato, infatti, le autorità cinesi avevano sempre mostrato grande reticenza sull’argomento, ben guardandosi dall’ammettere pubblicamente le proprie preoccupazioni circa l’utilizzo del suolo pakistano come terreno di scambio e di reciproca contaminazione da parte di numerosi gruppi terroristici attivi in tutta la regione. Tuttavia, l’aumento del livello di violenza che si è registrato quest’anno nello Xinjiang ha in parte mutato la posizione del governo cinese, spingendolo ad adottare una linea più dura nei confronti dell’alleato pakistano. Approccio che avrebbe, almeno in parte, dato già i suoi frutti.
Sono in molti, infatti, a ritenere che le pressioni provenienti da Pechino abbiano molto influito sulla decisione delle autorità pakistane di avviare un’operazione di contrasto al terrorismo nel Nord Waziristan (vero e proprio epicentro del terrorismo nella regione, nonché principale base per gli estremisti uiguri) e nella regione circostante. Denominata “Zarb-e-Azb”, dal nome di una delle spade utilizzate in battaglia dal Profeta Maometto, l’operazione avrebbe sinora provocato l’eliminazione di oltre 1.100 presunti terroristi (si tratta di dati ufficiali delle Forze Armate pakistane, non verificabili da fonti indipendenti), alcuni dei quali di etnia uigura.
Contenere il più possibile l’instabilità nello Xinjiang rappresenta un obiettivo di assoluta importanza per il governo di Pechino, fiducioso che nel lungo termine saranno le politiche demografiche e di sviluppo economico e infrastrutturale ad assicurare una maggiore integrazione di questa provincia, con un conseguente indebolimento delle tendenze separatiste attualmente esistenti. Nel breve periodo, tuttavia, desta forte preoccupazione la crescente penetrazione dei gruppi uiguri da parte di ideologie radicali, elemento centrale per comprendere l’evoluzione delle modalità operative da questi adottate in questi ultimi anni (attacchi indiscriminati contro i civili, attentati suicidi). Il rischio che il governo di Pechino è fermamente intenzionato a sventare è quello che lo Xinjiang divenga per la Cina ciò che la Cecenia è stata, ed è tuttora, per la Russia: un’area di costante instabilità, potenzialmente in grado di favorire la diffusione dell’estremismo anche in altre parti del Paese. Una vera e propria zavorra per le ambizioni di sviluppo di Pechino.
La futura evoluzione dei rapporti tra Cina e Pakistan dipenderà in buona parte dalla capacità di Islamabad di contrastare le attività dei gruppi terroristici attivi nel Paese, riconquistando la piena sovranità del territorio nazionale. Se è vero che, almeno per ora, sembra difficile che il Pakistan recida ogni tipo di legame con queste formazioni – utilizzate, nel caso dell’Afghanistan, come veri e propri moltiplicatori di influenza, o, nel caso dell’India, come proxy utili a bilanciare la superiorità militare convenzionale di Nuova Delhi – è altrettanto innegabile che negli ambienti militari pakistani va facendosi largo la consapevolezza che esse rappresentano una seria minaccia per la stessa sopravvivenza del Paese, oltre che un enorme ostacolo al suo sviluppo economico. Il costo diretto e indiretto del terrorismo per il Pakistan ammonterebbe infatti a svariate decine di miliardi di dollari. Secondo l’ultimo rapporto dell’UNCTAD, nel 2013, gli investimenti esteri diretti (IDE) nel Paese sono stati pari a 1,3 miliardi di dollari, un’inezia rispetto ai 28 miliardi di IDE in India (seppur in un periodo di rallentamento economico) e inferiori rispetto anche a quelli effettuati in Bangladesh (1,6 miliardi). Un dato in contrasto con quanto emerso dall’ultimo rapporto “Doing Business” della Banca Mondiale, che vede il Pakistan meglio posizionato (128° su 189 Paesi) rispetto a India (142°) e Bangladesh (173°), per quanto riguarda contesto normativo e tutela degli investimenti.
In questi ultimi anni l’economia pakistana ha subìto un progressivo indebolimento, che ha inevitabilmente peggiorato le condizioni di vita della popolazione. Nel 2013 il pressoché totale esaurimento delle riserve di valuta estera ha costretto il Paese a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito di circa 6,6 miliardi di dollari. Il governo di Nawaz Sharif ha sinora deluso in ambito economico, ostacolato anche da una crisi politica che ne ha paralizzato l’azione per vari mesi. Proprio a causa delle contestazioni anti-governative, lo scorso mese di settembre, il Presidente cinese Xi Jinping aveva dovuto posticipare una visita in programma a Islamabad. Incontro che si è infine concretizzato l’8 novembre, al margine di un vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), organizzazione di cui il Pakistan non fa parte. Al centro della discussione, la cooperazione in ambito economico ed energetico, con la firma di una ventina tra accordi e protocolli di intesa. In particolare, in occasione del vertice bilaterale, la Cina ha ribadito il proprio impegno a rafforzare e ammodernare le infrastrutture energetiche pakistane, tra i principali ostacoli allo sviluppo dell’industria manifatturiera e di altri settori. Accordi che rientrano nell’ambito di un progetto ben più ampio: il cosiddetto “Corridoio Economico Pakistan-Cina” (CEPC). Una fitta rete di infrastrutture stradali, ferroviarie, aeroportuali ed energetiche per collegare lo Xinjiang alla città portuale di Gwadar, nella provincia meridionale del Belucistan. Si tratterebbe, per il Pakistan, di una grande opportunità di sviluppo economico per le zone interessate dal progetto, con ricadute economiche positive per tutto il Paese. Per quanto riguarda la Cina, il CEPC è funzionale al raggiungimento di molteplici obiettivi. In primo luogo, rientra nel piano di sviluppo economico dello Xinjiang e di tutta la parte occidentale del Paese (la cosiddetta politica del “go west”). Un collegamento infrastrutturale con Gwadar, località poco distante dallo Stretto di Hormuz, consentirebbe inoltre a Pechino di ridurre drasticamente costi e tempi degli scambi con Medio Oriente, Africa ed Europa, assicurando, inoltre, al Paese una valida alternativa al sempre più congestionato Stretto di Malacca.
Corridoio economico sino-pakistano – Fonte: Pakistan-China InstituteIl Pakistan, dunque, riveste un ruolo importante nei piani della Cina di utilizzare le risorse finanziarie accumulate in questi anni di forte espansione economica per ridurre drasticamente le distanze esistenti nell’immensa regione asiatica, tramite la realizzazione di un piano infrastrutturale senza precedenti, una “nuova via della seta”, di cui il CEPC rappresenterebbe la direttrice più a sud. Un progetto del valore di oltre 40 miliardi di dollari, di cui beneficerebbero molti Paesi e in primo luogo la Cina stessa, che rafforzerebbe in questo modo la sua influenza sulla regione, confermando le proprie ambizioni di leadership.
Non mancano, tuttavia, ostacoli al successo di questo progetto, in primo luogo quelli legati alla sicurezza. Sebbene la Cina abbia negli ultimi anni dimostrato di saper operare anche in aree del mondo caratterizzate da forte instabilità, investimenti onerosi come quelli appena descritti richiedono maggiore cautela, oltre che il realizzarsi di talune imprescindibili condizioni. Il nuovo approccio adottato da Pechino nei confronti delle autorità pakistane sembra andare proprio in questa direzione, così come il suo crescente coinvolgimento in Afghanistan. La recente visita in Cina del nuovo Presidente afghano, Ashraf Ghani, ha messo in evidenza la volontà di Pechino di giocare un ruolo più importante nel Paese, soprattutto in vista del progressivo ritiro delle truppe della missione ISAF (International Security Assistance Force). Oltre a impegnarsi a corrispondere al governo afghano aiuti per il valore di 330 milioni di dollari nei prossimi tre anni, il Presidente Xi Jinping ha espresso la volontà di aprire una nuova fase nei rapporti bilaterali, caratterizzata da una più intensa collaborazione.
Un Afghanistan instabile rappresenterebbe, infatti, una grave minaccia per l’intera regione, in primo luogo per gli Stati dell’Asia centrale, partner sempre più importanti per la Cina, e danneggerebbe direttamente gli interessi economici di Pechino, che nel Paese ha già investito ingenti risorse (circa tre miliardi di dollari per i giacimenti di rame di Aynak). Il rischio principale, tuttavia, è che un vuoto di potere in Afghanistan favorisca l’azione dei gruppi estremisti attivi nella regione, compresi quelli che operano nello Xinjiang.
La maggiore consapevolezza della Cina circa le responsabilità derivanti dal suo ruolo di principale potenza dell’area potrebbe, pertanto, rappresentare un importante fattore di stabilizzazione per la regione. A differenza degli Stati Uniti, il Pakistan considera Pechino un alleato affidabile oltre che di fondamentale importanza. Secondo un sondaggio condotto nel 2013 dal centro di ricerca PEW, l’opinione che i pakistani avrebbero dei cinesi sarebbe persino migliore di quella dei cinesi stessi. La Cina, dunque, sembra in grado di esercitare una forte influenza sul governo di Islamabad, spingendolo ad assumere una posizione meno ambigua nella lotta al terrorismo, e contenendone, in qualche modo, la volontà di condizionare gli avvenimenti in Afghanistan, tramite l’appoggio fornito ai Taliban e ad altre formazioni estremiste. In caso contrario, l’alleanza tra Pakistan e Cina appare destinata a subire un processo di progressivo ridimensionamento, che accentuerebbe l’isolamento internazionale di Islamabad, allontanando ogni prospettiva di reale sviluppo per il Paese.
* Daniele Grassi è Dottore in Relazioni Internazionali (Università LUISS “Guido Carli” di Roma) e Analista di geopolitica e sicurezza dell’Asia Centrale e Meridionale
Photo credits: Xinhua
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