Magazine Diario personale
ALLEGRAMENTE
Mi sveglio di soprassalto nella notte, e mi domando che ne sarà stato degli altri. Di tutte quelle altre persone che vedevo in sala d’aspetto dieci anni fa, quando ti accompagnavo al supplizio vano e crudele della chemio. Ne sarà sopravvissuto qualcuno? Quella donna molto anziana, ma bellissima, dal viso di star del cinematografo, che rivelava con arresa dolcezza di essere “stanca”. Quell’ometto che non emetteva mai parola né sospiro, perché anche per lui parlava fin troppo la moglie da me chiamata “la volgarona”, una capace di infondere buonumore e coraggio come papà non fu mai in grado con te, ma che forse esagerava, e lo metteva in imbarazzo. Guardava il compagno d’una vita, e poi, davanti a tutti, sbraitava cose del tipo “Come farò io senza te a rompermi le balle tutto il giorno col tuo carattere di merda?” E lui muto, come se il cancro l’avesse avuto alle corde vocali. E la donna in carriera operativissima al telefono: per quanto, ancora? E quel vecchietto accompagnato dalla nipote, che in quel luogo aveva già affiancato, per poco, il giovane marito ucciso da un melanoma. E quella ragazzona di vent’anni, alta e robusta, che avresti detto piena di vita e di salute, non fosse stato per la bandana che le copriva la calvizie? Sorrideva, lei. Ti guardava e sorrideva, con occhi grandi e acquosi come oceani d’amore minacciati di prosciugamento. Avesse avuto qualsiasi altra malattia, avresti potuto scambiare quel sorriso per superficialità o pochezza. Ma lì, in quel posto orribile, a sorridere non poteva essere che un angelo. Che fine avrai fatto, ragazza sfortunata?
Non ho mai saputo il nome di nessuno di loro. Al massimo i cognomi – tutti dimenticati – scanditi dall’oncologo o da qualche infermiera con un foglio in mano. La lista dei morituri. Ne ricordo solo uno, il primo, per la sua sconcertante, orripilante assurdità. Sono sempre più convinto che non poteva essere un cognome, non mi risultano cognomi così. Era la primissima volta, e sulla porta della sala d’aspetto s’affacciò il giovane oncologo in persona – un bell’uomo alto dalla faccia triste – scortato da un’infermiera. Diede una sbirciata al foglio, e poi, senza intenzioni ironiche né tantomeno umoristiche o psicoterapeutiche, chiamò quel nome impossibile, “Allegramente”, e poi restò qualche secondo in silenziosa attesa, come se davvero si fosse aspettato di vedere un signor Allegramente, il paziente malato di tumore Allegramente Mario, o Allegramente Roberto, alzarsi felice dalla sua sedia e seguirlo trotterellando. Magari per ricevere, al posto della gemcitabina, una dose di zucchero filato. La cosa ancora più assurda è che subito dopo il signor “Allegramente”, l’allegro fantasma, subito dopo la stridente stonatura, il funereo contrasto, il pugno nello stomaco di sentire una parola così lieve pronunciata in quella tomba al neon e con quel timbro così cupo, a venire chiamata fu la signora Ferrari, cioè Tu. Allora ripensai all’amica infermiera che aveva tentato di fissarci un appuntamento con l’altro oncologo dello stesso reparto, sostenendo, avvertendoci, che il giovane bello e triste era solito deprimere i pazienti, ma che sul giovane bello e triste aveva poi dovuto ripiegare, essendo la lista dell’altro davvero troppo affollata. Se l’oncologo giovane bello e triste, prima di chiamare Te, avesse detto “Allegramente” con amara ironia, e non avesse poi fatto quella pausa così lunga, avrei potuto immaginare che si fosse accorto della manovra non riuscita, e del (piccolo) discredito gettato su di lui, ed esternasse così il suo disappunto. Ma il suo pronunciare quell’incongrua parola come fosse davvero il nome di un paziente mi lasciò, e mi lascia tuttora, interdetto e allibito. L’unica spiegazione è che qualcuno (un superiore? un’infermiera? la stessa mia amica?) avesse scritto “Allegramente” prima dei nomi, come una frecciata dispettosa, oppure un invito, un’istruzione, un’esortazione, un auspicio, come l’allegretto o l’andante con brio che si stampa sugli spartiti musicali, e che l’oncologo giovane bello e triste l’avesse squallidamente preso per un nome da chiamare. A vuoto.
E quanti ne venivano chiamati, a vuoto. L’effetto più lugubre, là dentro, era dato dagli appelli a cui non rispondeva nessuno. Erano come singoli rintocchi di campana a morto, sentenze in differita: se al richiamo di un nome non seguiva il movimento di una sedia, sapevi benissimo perché quella persona non c’era. Fu per evitare quel cupo e angosciante rintocco, e per civile rispetto di altri esseri umani in lista d’attesa, che subito dopo la tua morte mi premurai di chiamare il reparto per disdire i successivi appuntamenti. Mi aspettavo la voce di una qualche infermiera. Invece mi rispose proprio l’oncologo giovane bello e triste. Mi disse che aveva fatto il possibile, ma che non c’era più niente da fare. Mi ringraziò per la sensibilità e l’altruismo dimostrati facendo quella telefonata in un momento così. Disse che era un pensiero che non aveva mai nessuno. Lo ringraziai anch’io. E dentro di me lo perdonai per l’esser stato, non per colpa sua, null’altro che un impotente funzionario di Madama la Morte, per non aver ricevuto in dotazione alla nascita il sorriso e l’empatia, e per aver evocato, in quell’orrenda mattina che mai dimenticherò, quel rabbrividente signor Allegramente, il cui ricordo mi perseguiterà finché campo.
Dimenticavo: oggi sarebbero 75.Buon compleanno, mamma. Te lo dico più allegramente che posso.
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