« …Sono sicuro che nelle mie opere appaio come Dio mi ha fatto e così come sono diventato attraverso l’azione del tempo, della mia nazionalità ed educazione. Non sono mai stato falso con me stesso. Quello che sono, buono o cattivo, lo debbono giudicare gli altri… » Pëtr Il’ič Čajkovskij
Questo non è solo un racconto. È un regalo. Un regalo di compleanno. Ad Annarosa, a Pëtr Il’ič e alla musica. E mentre lo leggete, vi invitiamo ad emozionarvi con questo. (Anche se, a dirla tutta, il concerto di cui si parla lo trovate qui.)
I Movimento: Il camerino
Lei aspettava.
Aspettava che la chiamassero.
Aspettava che la chiamassero mentre il tocco nervoso del tacco contro la gamba della sedia riempiva la stanza umida di dissonanze emotive, contrastando il gocciolio del rubinetto, guasto da ormai troppi concerti.
Tac, tac, tac. Plink, plink, plink.
Tac. Plink
Plink. Tac.
Plak. Tlinc!
In una cadenza di sudori freddi e di ansie esplodenti.
E l’attesa cominciò a riempirsi di domande. Troppe. Insistenti, futili, stupide domande.
E se una mosca dovesse posarsi sulla mano?
E se una goccia di sudore dovesse andarmi in un occhio?
E se non dovessi riuscirci?
Quest’ultima era la più insistente, la più penetrante, la più inquietante. La più insidiosa. La più pericolosa.
No, doveva allontanare il pericolo della paura dell’insuccesso. L’avrebbe ficcata in una lotta, sfinente, contro se stessa. Doveva pensare ad altro.
Muro, bagher, veloce, schiacciata.
Di nuovo.
Muro, bagher, veloce, schiacciata. – Primo set!
Muro, bagher, veloce, schiacciata!
Di nuovo.
Muro, bagher, veloce, schiacciata!
Tie break!
Muro, bagher, veloce, schiacciata!
Di nuovo.
Muro, bagher, veloce, schiacciata!
Questo la calmò.
Si guardò le mani, ancora ancorate nella posizione del bagher, ancora impegnate nella partita immaginaria. Ma sempre concentrate alla partita che avrebbe disputato. Quella per cui aveva lavorato, quella per la quale era in attesa. E doveva rilassare quel bagher. In quel momento aveva bisogno di mani sciolte, asciutte, risolte e risolute alla meta che stava per raggiungere. Non doveva aggiungere tensione a tensioni.
E poi arrivò, liberatorio, il tanto atteso: “Cinque minuti! Cinque minuti!…”
II Movimento: Il corridoio
Aprendo la porta che dava sul lungo corridoio, considerò che sarebbe stata urgente una lubrificata alle cerniere.
Una lampada al neon stava irradiando, intermittentemente, gli ultimi bagliori di una lunga vita.
Si stirò l’abito con le mani e andò.
Si chiese se non avesse avuto ragione sua madre nel ritenere l’abito un po’ troppo corto e scollato.
Scacciò infastidita quella nuova distrazione e proseguì.
Le scarpe nuove le dolevano.
Un dolore ai talloni, lontano, come lontana le sembrava la sua attualità. La tenue luce del corridoio la trasportò in una densa estraniazione. Tutto sembrava soffuso, quasi inconsistente.
Era immersa in un torpore un po’ troppo soffice.
Aveva da affrontare la prova più grande, diamine, non poteva essere così estranea a se stessa, non lo voleva, non lo capiva, non lo concepiva.
Aveva voglia di fremere di emozioni.
No. Aveva bisogno, urgenza, frenesia, di fremere di emozioni.
Stava affrontando tutto solamente per questo: un bisogno sconfinato di emozioni, di quelle che rendono importante, irrimediabilmente impresso nella memoria ogni attimo di vita. Impresso nella memoria, certo, ma soprattutto nel cuore.
Questo voleva dalla propria esistenza, fremere, fremere, fremere di emozioni. E di poesia.
Quella poesia che rende tutto un po’ più vivibile. E importante.
Ma quel corridoio l’aveva precipitata nella più inutile delle atarassie.
Poi vide l’ingresso al palco. E il torpore svanì. E il cuore cominciò a cavalcare.
E lei riprese a fremere.
III Movimento: il palco.
Le quinte odoravano di polvere. Polvere antica. Polvere di tempi remoti. Polvere che sapeva di vita vissuta. Di applausi, di signore in décolleté, di “Che gelida manina” e “Amami, Alfredo”, di “Essere o non essere”. E di “Allegro non troppo e molto maestoso”. Chissà quante volte, la polvere delle quinte, aveva ascoltato quella musica. La musica che stava per suonare.
E scoprì che fosse più importante il giudizio di quelle quinte sature di polvere, che di quello di gente che era lì solo per esserci e non per emozionarsi.
La gente non disposta ad emozionarsi era inutile, considerò.
Un tocco di dita fredde la distolse dai pensieri. Si voltò e incrociò lo sguardo caldo del direttore.
Era tempo di andare, di terminare la prova e iniziare la vita, il concerto.
E andò incontro al proprio essere, accompagnandolo sul palco dove si sarebbe srotolato il futuro. E la vita.
Considerò l’applauso che li accolse un mero atto di fiducia, ma non se ne dette pena.
E poi lo vide, maestoso.
IV Movimento: il pianoforte
Era pronto per lei, per accompagnarla. E per farsi ammansire dalle sue dita. Calde, asciutte, risolte e risolute.
Lui era pronto, pronto ad accogliere la potenza incessante delle note che lei gli avrebbe dato, donato, inferto.
Era pronto a regalare.
Lei gli si avvicinò, lo sfiorò.
Lui gli dedicò ogni suo suono, ogni suo atto d’amore.
Lei gli si accostò, come un sacerdote all’altare, come un amante al talamo, per celebrare il rito passionale e solenne del concerto.
Pronta a stupire, sedurre, commuovere.
Pronta a suonare.
Guardò i tasti, li sfiorò, li esperì.
Accarezzò quei tasti, li fece diventare parte di sé, del suo stesso esistere, del suo stesso amare, del suo orgoglio, del suo stupore, del suo sperare, del suo gioire, della sua voluttà, del suo essere viva.
Guardò il direttore, gli fece un cenno: “Ecco, sono pronta”.
E il direttore la guardò, colmo di commozione.
Levò la bacchetta, uno un, e l’orchestra partì…
V Movimento: il concerto.
…con un ¾, Allegro non troppo e molto maestoso. I corni invocarono orgoglio, do-la-sol-fa, andiamo a sognare.
E l’orchestra rispose.
E lei cominciò a respirare, nei tre accordi, maestosi, nei tre accordi che le spalancarono la vita, che gliela resero nuova. Che gliela resero viva!
Filippo Di Maso, 12 gennaio 2014.
Ad Annarosa, a Pëtr Il’ič e alla musica.



