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Alzheimer e Demenza: la Differenza tra curare e prendersi Cura

Creato il 13 aprile 2012 da Federina

La Demenza di Alzheimer nella prospettiva Conversazionale, è considerata una malattia del linguaggio.

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In passato si era focalizzati sui deficit secondari della malattia: disturbi comportamentali, psichiatrici, linguaggio, di memoriaConseguentemente la strategia terapeutica mirava a migliorare queste funzioni con la somministrando farmaci e psicofarmaci che compensassero gli squilibri sia a livello comportamentale che chimico-biologico, dimenticando la dimensione soggettiva: il farmaco può attenuare i sintomi ma non la sofferenza psichica connessa alla malattia.

Discende pertanto dall’approccio bio-medico un senso di impotenza di fronte a patologie croniche e degenerative come questa.

Il Conversazionalismo invece, forte di queste acquisizioni, muove da una visione olistica, globale del paziente, che non è un “malato”, ma una “persona malata” e se la malattia degenerativa farà il suo corso, ci si può comunque prendere cura della persona rallentando il processo di deterioramento aggiuntivo variabile a seconda delle caratteristiche dell’interazione persona-ambiente.

Nel Conversazionalismo la conversazione diviene atto terapeutico, il paziente viene riconosciuto come interlocutore in modo da essere pienamente valorizzato. Viene riconosciuta la sua dignità individuale e la sua unicità: attraverso il linguaggio frammentato il malato  trasmette il suo mondo emotivo, è necessario perciò predisporsi all’ascolto e prestare attenzione alla sua soggettività.

Il presupposto diviene quindi quello secondo cui “(…) è la parola ad essere malata: è la parola che deve essere curata e la cura si fa con le parole” (Vigorelli P., 2004), il Conversazionalismo rappresenta lo strumento per curare con le parole le parole malate. Le parole sono malate in quanto il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive fa perdere alla parola del paziente la sua funzione comunicativa, ciò genera frustrazione e una sofferenza tale da condurlo ad isolarsi, contribuendo all’aggravarsi delle sue condizioni. In alcuni casi la funzione comunicativa è totalmente compromessa, ma la conversazione è ancora possibile, perché esiste una conversazione senza comunicazione e se si riesce a mantenere una certa capacità di conversare col paziente, questi riesce ad utilizzare al meglio le sue funzioni residue.

Affinché questo approccio possa espletare la sua funzione terapeutica è necessario però sintonizzarsi con il “mondo possibile” del paziente: parlando con i pazienti Alzheimer capita spesso che si crei una dissonanza tra i due interlocutori. Il paziente nei turni verbali diviene sempre meno comunicativo e sembra riferirsi a un mondo irreale, distorto o comunque diverso da quello cui fa riferimento l’altro, che sta cercando di restare aderente alla realtà presente. Il sano e il malato che si trovano di fronte con l’intento di conversare sembrano abitare due diversi mondi, senza un luogo comune dove incontrarsi. Quello che ne risulta è una conversazione stentata in cui ciascuno cerca di attrarre l’altro nel suo mondo senza riuscirci. Ne può nascere rabbia e frustrazione. La conversazione diviene tanto penosa che sia il paziente che il terapeuta, tendono a evitarla. Si viene a creare un circolo vizioso per cui si parla meno, si produce isolamento e si compromettono ulteriormente le capacità di parlare, fino a quando non si smette del tutto.

Il deterioramento cognitivo infatti è sì conseguenza della malattia, ma può essere rallentato o accellerato a seconda delle caratteristiche funzionali o disfunzionali dell’interazione ambiente-persona: ci si  può focalizzare sulle funzioni ormai compromesse e contribuire ad innescare questo circolo vizioso per cui l’anziano, non sentendosi adeguato nei vari contesti esistenziali, né tantomeno capito o utile agli altri, tende a chiudersi sempre più in sé stesso e nella sua malattia oppure, al contrario, promuovere un contesto come quello conversazionale che valorizzi funzioni e contributi residui. Un intervento di questo tipo può direttamente facilitare la produzione lessicale “felice” e di riflesso migliorare la qualità della vita del paziente ed il suo rapporto con l’ambiente, rallentando il processo di degenerazione cognitiva.

E’ felice una conversazione dove c’è coerenza di significati all’interno delle frasi, dei singoli turni verbali e dei turni verbali tra loro. “Felice” perché questo tipo di interazione argina il senso di inadeguatezza del paziente.

Il clima di benessere generato dal contesto conversazionale consente di rompere il muro di isolamento che imprigiona il paziente facendo nascere nel malato di Demenza di Alzheimer la consapevolezza che è ancora possibile relazionarsi col mondo, anche se si è malati, e al momento del congedo torna alla vita di tutti i giorni con un’accresciuta stima di sé (Vigorelli P., 2004).
Perché “quando si cura una malattia si può vincere o perdere, ma quando ci si prende cura di una persona si può solo vincere” (Patch Adams).

- Vigorelli P, “ La conversazione possibile con il malato Alzheimer”, (a cura di) Franco Angeli 2004, 6° ed. 2010

A cura della Dott. ssa Daniela Di Feliciantonio


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