Mentre in Italia le vicende di Pomigliano infiammano gli spiriti rivoltosi della Fiom e la Fiat denuncia lesa maestà, dalla Cina giungono nuove notizie, interessanti dal punto di vista umano, dei diritti civili, ma sconfortanti sul piano economico e concorrenziale al mercato occidentale.
I cinesi hanno scoperto lo sciopero, o meglio, l’hanno sempre conosciuto, ma ora comincia a portare dei risultati. Tutto è partito dalla Honda, nello stabilimento di Foshan. I lavoratori, decisi a portare a termine le trattative, hanno incrociato le braccia minacciando scioperi a oltranza. La volontà è di portare a casa un aumento dai 900 – 1500 yuan attuali ai 2000 – 2500 (che comunque non sono più di 300 euro euro al mese).
E le proteste continuano al ritmo di un’infezione. Nella provincia dello Henan, oltre 5000 operai hanno bloccato produzione e ingresso in azienda. Nello Yunnan, lo sciopero degli autobus ha creato 50 mila pedoni. A Guangzhou, la fabbrica di componenti per la Toyota ha subito rallentamenti nella produzione e l’apertura di una trattativa.
I cinesi hanno finalmente aperto gli occhi su due cose fondamentali. La prima è che i sindacati, anziché tutelare i lavoratori, sono schierati a favore dei datori di lavoro, perché sono organizzazioni nate in assenza della volontà degli operai e perché i loro dirigenti non sono votati da chi dovrebbe essere difeso (ma non è detto che, anche se lo fossero, le cose sarebbero diverse). Il secondo fondamento è che, essendo soli, hanno capito come il singolo individuo, in assenza di organizzazioni sindacali di tutela, non può nulla contro le potenze industriali. Ma l’unione, si sa, fa la forza, e l’unione dei lavoratori, organizzati in collettività agguerrite, accendono battaglie aspre volte a migliorare le condizioni di lavoro (leggi orario) e di salario.
È giusto! Più diritti e più giustizia nel lavoro. No allo sfruttamento. Tuttavia, un aumento dei salari cinesi e la forte migrazione dalle campagne verso le città produce un incremento costante (seppur lento) della condizione di benessere di un numero sempre maggiore di persone. È un processo che avanza a rilento e che non preoccupa nell’immediato, ma è pur sempre una tendenza. Come quella, probabilmente, di superare lo status di “copioni” e “contraffattori”, per spostarsi sulla produzione di qualità. Certo, a un livello inferiore rispetto ai prodotti europei, ma un gradino sotto nel campo qualitativo, col vantaggio di un prezzo estremamente contenuto della produzione, potrebbe sviluppare incrementi economici al di fuori della nostra portata.
Una Cina che punterebbe a produrre oggetti di maggiore qualità sia per il mercato esterno (esportazioni) che interno, per una fetta di popolazione che gode condizioni di vita migliore e salari più alti. Cittadini che hanno facoltà di spendere il denaro guadagnato acquistando prodotti nazionali, dei proto-shopper pronti ad ammazzare un mercato europeo che è fin troppo in stanca.
La grande favola qualitativa delle griffe è destinata quindi a esaurirsi? I ricchi mercanti che vendono beni di lusso Made in China o assemblati in laboratori semi-clandestini a Prato saranno presto sull’orlo del fallimento? Sinceramente ne dubito, gli acquirenti viziati, beffati e contenti, che comprano borse del valore di 30 euro a un prezzo gonfiato oltre 10 volte, non si lasceranno certo intimorire.
È questo il vero valore aggiunto. Intanto, la Cina-dipendenza aumenta.
Da vedere: Disoccupati del lusso, puntata di Report del 18 Maggio 2008.
Fonti: Rassegna.it, Ansa, La Stampa, Internazionale n 851