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Appalti pubblici: tu non hai fame?

Creato il 07 giugno 2014 da Ilbocconianoliberale @ilbocclib

E quindi, un altro scandalo. Un altro scandalo legato agli appalti pubblici.

Eh ma si sa, signora mia, che l’Italia è un popolo di santi, poeti, navigatori e ladri! 

E tutti giù, con raffinate disamine sulla cultura dell’illegalità, sulla generalizzata impunità, a chiedere inasprimenti delle pene, più regole, lance e bastoni, forconi, galere e chiavi buttate.
Il giacobinismo dilagante (non solo al bar), però, sembra far fatica ad andare al di là dell’eugenetica del mariuolo italiano e, quindi, diamo una mano noi.

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Attualmente il Codice che regola gli appalti pubblici conta circa 600 articoli, modificati – come ci spiega un brillantissimo Davide De Luca su Libero – 564 volte dal 2006. Ognuno di questi rimanda ovviamente ad altre norme, altrettanto intricate e pesanti, aumentando notevolmente il peso della complessità. A questo si aggiunge che enti diversi hanno modulistica diversa, da compilarsi senza sbavature per evitare grane in sede di eventuale contenzioso. Tutto senza considerare molte altre pratiche obbligatorie da allegare, da quelle a garanzia della regolarità contributiva dell’impresa ai certificati antimafia.
In seconda istanza, le stazioni appaltanti in Italia, cioè quelle amministrazioni aggiudicatrici che affidano appalti pubblici di lavori, forniture o servizi (o concessioni di lavori pubblici e servizi) sono… circa TRENTADUEMILA. In Francia, per esempio, non si va oltre il centinaio. E ho detto Francia, cari amici: non esattamente un paese con una presenza statale snella e leggiadra.

Due piccoli esempi, come questi, credo siano sufficienti a definire un quadro.

Allora, tra gli strepiti manettari e l’invocazione a nuove regole (ancora!), magari si potrebbe far presente che, a parità di guardie giurate, in una strada con trentaduemila gioiellerie che vendono le stesse cose è più facile rubare che in una con qualche centinaia.
Nessuno qui dice che non si debba punire chi corrompe, ruba e sgraffigna (vige questa curiosa consecutio per cui chi non agita le manette imperniate sull’indice come lo sceriffo sia un sostenitore dell’impunità), ma che forse, se vogliamo andare oltre al solletichìo della pancia dei lettori del Fatto Quotidiano, l’intervento che serve è di ben altro tenore.

Ma in questo paese – e diciamolo, cara signora mia – si sa, l’unica cultura che sentiamo realmente propria non è quella dell’illegalità, ma quella dello stato grasso, inutilmente straripante e dannosamente pervasivo. Che ci sia correlazione?

Tad A.


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