"[...] l'Articolo 18 [...] non è un problema e per il lavoratore non è una sicurezza. [...]
non ho trovato un solo imprenditore [...] che mi abbia detto [...] io non lavoro in Italia [...] perchè c'è l'Articolo 18. Nessuno me lo ha detto. Non c'è un imprenditore che ponga l'Articolo 18 come problema. Perchè mi dicono c'è un problema di burocrazia, di tasse, di giustizia, non dell'Articolo 18. [...] non ho mai trovato un ragazzo precario che mi abbia detto 'sogno l'Articolo 18'. [...]
L'Articolo 18 è un problema mediatico [...] è un problema che è posto solo nel dibattito mediatico. [...]" (Fonte: dichiarazioni di Matteo Renzi, Servizio Pubblico, https://www.youtube.com/watch?v=7q7X4atKL1Y)
Alla luce di queste dichiarazioni, sulla cui incoerenza di fondo pare maggiormente dignitoso sorvolare, è lecito porsi una domanda ulteriore: come mai si è data priorità (sbandierata, difesa, assoluta) alla risoluzione di un problema tramite approccio (dallo stesso Renzi) bollato come mediatico?
Si è scelto di gonfiare questo punto per convinzione, per convenienza o per carenza di strumenti efficaci con cui (provare ad) affrontare questo periodo di crisi senza alcuna risoluzione? Aggredire l'Articolo 18 è semplice, rende maggiormente l'idea di quel cambiamento istantaneo tremendamente caro al renzismo da hashtag.
Difendere lavoratori ed imprenditori nella loro globalità rischia di essere, invece, una mission un pò più lenta e complessa da attuare e strutturare: al netto dei punti di vista possibili, infatti, un cambiamento su scala nazionale non è minimamente attuabile in breve tempo su un argomento tanto complesso come il lavoro. Parimenti alla comparsa dell'Articolo 18 da abbattere, sono infatti scomparsi una larghissima serie di altri obiettivi a lungo sbandierati dal renzismo da hashtag: che fine ha fatto il semestre europeo, inaugurato con un discorso tanto roboante quanto inconsistente sulla necessaria (ed immediata, guarda caso) svolta da dare all'interpretazione del "patto di stabilità e di crescita"?
Che fine ha fatto la necessaria legge elettorale da portare a casa nei primi #centogiorni? Che fine hanno fatto i provvedimenti per creare un futuro Senato strutturato in maniera peggiore di quello attuale? Che fine hanno fatto le infinite riforme promesse e/o sbandierate da dover condurre in porto ad ogni costo? Quel che era stato promesso in un arco di tempo relativamente breve, si è poi diluito in #millegiorni di (auspicata?) Legislatura.
In mezzo alle molte promesse fatte ed alle poch(issim)e realizzazioni raggiunte, si è arrivati alla necessità di aggredire (nuovamente, in breve tempo) un problema mediatico (cit.) come quello costituito dall'Articolo 18.
Tale punto d'azione rischia di essere tutto, fuorché un controsenso da risolvere: cosa ne sarebbe (stato, fino ad oggi) dell'azione di questo Governo senza l'impulso mediatico ricevuto a più riprese? La necessità di affrontare (ulteriormente) l'Articolo 18 deriva quindi dall'insostenibile richiesta di mediaticità che questo Governo ha palesato, sin dall'inizio, per la sua sopravvivenza.
Lo schema che ne ha portato alla formazione è, d'altronde, conosciuto a tutti.
Ipocriti e/o per convenienza dimentichi compresi. Lo scenario d'azione è stato, riducendo ai minimi termini, il seguente:
- Il Governo Letta non riesce a comunicare nulla;
- Il Governo Letta comunica l'impressione di non riuscire a fare nulla;
- Ci vuole un cambiamento, un qualcosa che comunichi che si stia facendo qualcosa;
- Il Governo Renzi si insedia, promettendo una velocità non mantenibile come condizione necessaria alla sopravvivenza;
- Il Governo Renzi deve promettere/ far credere di essere veloce, tanto nella legiferazione quanto nel cambiamento, per la propria sopravvivenza;
- Il Governo Renzi può parzialmente assecondare i problemi mediatici per sopravvivere.
L'aggressione ai "problemi mediatici" rischia di essere quindi condizione tanto necessaria quanto sufficiente per la sopravvivenza del Governo stesso, altrimenti destinato a diventare tanto immobile quanto inutile. Come gli altri, appunto.
Si combatte per scongiurare un'inevitabile lentezza, si combatte per rimanere a galla in un immobilismo sconveniente a chi ha promesso (banalizzando) un potere brillante ed utile solo se sbandierato, veloce e/o immediato. Sia nell'azione che nell'esecuzione di quanto promesso.
Su questo fronte, purtroppo, l'Articolo 18 rischia di trasformarsi nell'ennesima occasione persa per rendere efficace l'idea di velocità e (pre)potenza d'azione: se si innesca un cambiamento violento, infatti, saranno tante le "urla".
In mezzo al caos è pressoché impossibile distinguere, con obiettività e competenza, sia colpe che colpevoli: su questo fronte la banalizzazione è tanto richiesta quanto desiderata, per poter conservare e perpetuare il proprio potere attraverso equilibri precari e dichiarazioni di volta in volta roboanti.
La risoluzione di problemi veri e più consistenti è eseguibile, infatti, mediante procedimenti strutturali e per questo destinati ad essere percepiti come lenti: quante promesse di allentamento burocratico sono state fatte, senza quasi mai riuscire a raggiungere un visibile cambiamento?
Quanti annunci sull'abbassamento delle tasse sono stati fatti a più riprese, senza riuscire a raggiungere un cambiamento che fosse visibile e strutturale (bonus 80 Euro escluso)? Quante promesse sulla giustizia sono state fatte, senza poter raggiungere mutamenti sostanziali e percepibili?
Per far percepire un cambiamento come sostanziale, infatti, servono pochi ma inevitabili "ingredienti" in una società complessa come questa: mediaticità, capacità di vendere fumo a prezzi ribassati, necessità di semplificare fino all'estremo problemi radicati.
Nella definizione di una strategia d'attacco sull'Articolo 18, infatti, si rischia di trovare l'ennesima opportunità per non affogare nel mare della lentezza che condannerebbe il Governo del rottamat(t)ore a diventare identicamente uguale a quelli che lo hanno preceduto: uno scenario così non può essere auspicabile, per un Presidente del Consiglio che ha sempre fatto della velocità (o della critica della lentezza altrui) la sua sola condizione d'esistenza.
Per la sopravvivenza, quindi, sembra essere preferibile scegliere un approccio compresso ad uno complesso: senza complessità è più facile far credere di trionfare in un mare di apparente immobilità. Sfruttare (svilendola) l'immensa complessità esistente per far credere che sia facile ed immediato fare arrivare al cittadino un cambiamento percepibile ed immediato: è anche questa una delle colpe più grandi e gravi attribuibili all'azione dell'attuale Presidente del Consiglio e Segretario del Partito Democratico.
Banalizzare per (con)vincere, sfruttando il caos e la (giustificabile) sete di risultati di una fetta di popolo allo stremo.
Discutere di lavoro significa perpetuare l'inganno di ragionare in maniera escludente e non integrata.
Discutere di liberalizzazioni in campo energetico significa attribuire esclusive colpe a comitati locali per le mancate trivellazioni effettuate in territori ad oggi bloccati. Discutere di giustizia significa instillare dubbi afferenti al personale giuridico che è solito fare troppe ferie.
Discutere di tagli significa non scendere nei dettagli, promettendo anche quello che sembra impossibile mantenere: la coperta è tremendamente corta.
Discutere di economia significa ripetere sempre le stesse cose, promuovendo dissertazioni sociologiche sull'impatto di misure attuate per sostegno più psicologico che reale alla società italiana. L'elenco delle apparenze sbandierate per sostanza potrebbe essere allungabile all'infinito.
Senza queste banalizzazioni, forse, il Rottamat(t)ore finirebbe per precipitare nel buco nero da lui stesso perpetuato ed alimentato: riformare questa Italia è un'attività troppo complicata per poter essere effettuata tramite singolo foglio Excel.
Fonte: icyte.com