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Assaggi di romanzi inediti - da "gémenteseflentes": la panchina grigia e il pettinatino simpatico.

Creato il 04 giugno 2011 da Zioscriba

Dopo il film, che quella sera era adatto, dopo la fine dei titoli di coda, quando apparvero quei loghi che mio padre chiamava “i scatulìtt”, andai in camera per chiudere bene le persiane. Se mi attendevano visite notturne del vecchio K., non era il caso di facilitargliele. Il crepuscolo si attardava, placido e liquefatto di blu intensi, viola accesi e ori sparsi. Non era ancora sceso il buio. Sembrava non dover scendere mai. I mostri verdi erano lì, più minacciosi del solito. Non sembravano un cuscino di protezione fra me e K. Sembravano piuttosto avanguardie, di K. Forse sarebbe stato prudente provare a dormire a pezzetti: un quarto d’ora e poi sveglio, un quarto d’ora e poi sveglio, un quarto d’ora e poi sveglio… Quarti d’ora: non di più. Buttai uno sguardo oltre il granturco, il più fugace possibile, perché se K. fosse stato là, fermo in piedi a spiarmi, preferivo non vederlo. Ma non potei non pensare all’avventura di otto notti prima. A tutto quello che io e Gianni avevamo visto attorno a Villa K. A tutto quello che mi aveva colpito con la sua stranezza. Le panchine, ad esempio. Cosa ci facevano tutte quelle panchine di pietra in un posto dove non andava a sedersi mai nessuno? Strano.
Anche nel giardino della nonna e della De Ropp c’era stata, anni prima, una panchina di pietra così. Una sola. Un giorno erano venuti a trovare la De Ropp una signora riccona e il suo figlio pettinatino, che aveva la riga da parte e un paio d’anni più di me. Il pettinatino mi trovò lì ginocchioni, intento a rivestire la panchina di un altro colore che a me pareva più bello. Lo facevo con grande cura, picchiettandoci sopra lo spigolo estremo di un mattone tenero e friabile tenuto in mano di sbieco, che cedeva alla superficie grigia il suo bel rosso argilla, pigmento per pigmento, millimetro per millimetro. Un lavoro da certosino di cui andavo ogni minuto più fiero. «Sei diventato pazzo tutto insieme, o è stato un pvocesso gvaduale?» mi aveva chiesto il pettinatino. Non gli avevo badato più di quel tanto. Del mio rivestimento color mattone ero proprio orgoglioso, ma poi mentre eravamo distratti erano spuntate la De Ropp e la madre riccona del pettinatino, che aveva pensato bene di sedersi proprio lì con la sua gonna da venti milioni, e allora non dico di aver smesso di essere orgoglioso, ma di certo avevo diminuito un bel po’. Era un’eventualità a cui non avevo pensato, che sulla panchina qualcuno avrebbe potuto volersi sedere! Noi artisti siamo fatti così. La De Ropp aveva guardato molto male i miei capelli e stava per avventarglisi contro, ma la riccona era una donna con un suo insospettabile corredo di nobiltà d’animo, e l’aveva fermata. Aveva detto che non era niente, e che per una gonna in tintoria non era mai morto nessuno. Io alla fine al pettinatino avevo detto “Ciao” anche se la sua riga da parte mi stava leggermente sul culo, lui invece mi aveva risposto “Cavo debosciato a mai più”, e la madre aveva fatto finta di rimproverarlo, ma col sorriso. Poi la De Ropp mi aveva concesso due ore per far tornare grigia la panchina.

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