Magazine Diario personale

Assaggi di romanzi inediti - da "LA CAMPAGNA PLAXXEN": capitolo 2

Creato il 16 aprile 2014 da Zioscriba
Troppi daiquiri, porca mattina. Residuo tragicomico di sbornia triste, col vostro Zio Pep a tentare d’infilarsi dalla testa pantalun-ghi di tuta grigia che nella penombra alcolica aveva scambiato per maglione. Mi son fatto sentire una capadicazzo, e tutto da solo. Le meningi che scoppiano. M’assale il ricordo di quel vecchio simpati-co, personaggio delle mie vacanze al mare d’infanzia, Giannino si chiamava, prigioniero di guerra in Grecia e poi piccolo imprenditore nel ramo umidificatori per caloriferi e approssimativo giocatore balneare di bocce (confondeva i colori, bocciava il punto del compagno, che in cambio diceva cose come dio cagnòn, ma poi si lasciava consolare da uno o più Campari). Ti arrivava in spiaggia, il Giannino, strascicando e inciampando (ciapando tupìk, lo chiamava lui) e ogni volta giustificandosi dietro un sorriso candido da bimbo col suo rituale Porca mattina, sono ancora ubriaco… Che bella cera che hai!, mi congratulo sorridendo a denti stretti nella specchiera del cesso. Mi sorprendo a pensare quanto si somiglino “specchiera” e “sputacchiera” in Italiano, la madre di tutte le lingue. Se mi guardo allo specchio poi mi sputo in un ecchio… In realtà mi sembro una cagata di piccione uscita pure storta, svogliata. (Non immaginatemi altissimo: sono un piccoletto coi capelli un po’ lunghi e la faccia fin troppo da buono. Dicono che somigli tantissimo al protagonista di Full Monty). 
Mi siedo davanti al notebook in salotto e mi accendo una Davidoff al mentolo. Sarà la terza o la quarta. Mia madre, l’Incombente-Onnipresente, me lo fa notare. Allora io le faccio notare che ho passato i quaranta e non deve rompermeli. Mi guarda malissimo, con quello sguardo da “Se hai passato i quaranta, com’è che sei ancora qui al riparo della mia sottana?”. Le chiedo scusa. Io chiedo sempre, scusa.Porca mattina, già. Ma cento volte più porca l’infame serata di ieri.
Arrivo al ristorante che son già tutti lì. Il maledetto parentume di lei. Le sue amiche venefiche. Al mio apparire si spegne nell’ostile imbarazzo un commento a voce alta su me medesimo, di cui faccio in tempo a captare la coda mozzata delle parole “inadeguato a sostenere una fami…”, pronunciate da un nerboruto cuginastro della Mantide Livorosa, cugino di secondo grado scala Mercalli, un energumeno infestato di tatuaggioni imbrattabraccia che esibireb-be a manica corta anche nei giorni della merla, un affollamondo con cinque figli tutti intelligenti come lui, ognuno chino e cretino sul suo bel videogioco portatile. Mi prende subito da parte la Mantide Livorosa per una prima scenatina improvvisata sui miei quattro minuti di ritardo (e va bene, erano cinquanta e passa, non si trova mai un parcheggio e son finito a casa di dio, e poi vuoi farti almeno un martini o tre in un bar o due per darti coraggio, porco d’io?), e una seconda scenatina assai più premeditata, pianificata, articolata, di genere finanziario. Perché accetto di stare in mezzo a queste vipere laide? Perché è il compleanno, l’undicesimo, del mio bambino.
Un dolce bambino down dietro la sua torta che tenta di spegnere le candeline. Mentre il suo sciammannato padre tenta di staccare la corrente ai contatti che vanno dal cuore ai condotti lacrimali. Nessun cuginetto gli si stringe attorno, si fanno i cazzi loro coi videogiochi. Già tanto se stanno a tavola, probabilmente ricattati con nuove promesse di tecnologica strammerda (i virus inoculati da mister Jobs e genoria simile, più devastanti della meningite). Amichetti non ne ha. I nonni materni sono al mare in Sardegna, e mia madre non se l’è sentita di venire, come al solito. Con lui non è avara di affetto e di coccole, ma so che sotto sotto considera mio figlio Paolo un castigo del Cielo, e che adesso sarà in chiesa a piagnucolare e ad accendere una candela del cazzo, invece di stare qui a battere le mani per lo spegnimento di queste. Ma papà non piange, tranquillo baby mio. Ci manca solo di fargli vedere che sono un maschio che sa piangere, a questi ottusi neanderthaliani del profitto, a questi disciplinati scopamoglie pocosessuali ma muulto spendaccioni per lo shopping firmato delle loro alberodinatalizzate lei (ce n’è una che le mancano solo le lucine intermittenti e la cometa d’oro ‘n copp’a capa). Tutte addobbate di orecchini penduli monili profumi straccettisexy tacchialti trucco smalto braccialetti borsette collane – ma quanto costa una gallina modaiola, visto che poi queste qui sono tutte casalinghe o impiegate part time? Vabbè. Io li avevo già notati con fastidio da un bel pezzo, certi stronzetti adolescenti a un altro tavolo che me lo additavano e sghignazzavano con cattiveria, senza che i genitori li schiaffeggiassero o fucilassero sul posto. Ma quello no, arrivare fino a quel punto. Quello non me lo sarei aspettato. Uscendo, prima di chiudere la porta e scappare via da vigliacco, l’ultimo di loro, un biondino già sui quattordici, si gira verso mio figlio e gli grida: “Buon compleanno, mongoloide!”.
Per la paga le due figlie firmate dell’albero di natale sono scoppiate a ridere di gusto, non smettevano più. E l’albero di natale neanche una piega, nanca ‘n plissé.Ora, voi crederete, o spererete, o addirittura ne sarete sicuri, che lui non abbia capito, non se ne sia accorto, non ne abbia sofferto. Ma si dà il caso che Paolo, per fortuna o purtroppo, sia uno di quei down molto, molto svegli. Seguitissimo, con cura intelligenza e amore (questo devo riconoscerlo anche alla signora Mantide) fin dai suoi primi giorni, sempre affidato alle menti più esperte, ai sistemi più avanzati (portato anche all’estero) e sempre, sempre, sempre amato e sostenuto e coccolato, e trattato ove possibile come un bambino del tutto normale, con tanto di lettura di favole prima del bacio della buonanotte. E così adesso è autocosciente. Così adesso se qualche fottuto bastardo lo chiama mongoloide, lui capisce.E allora, come credete sia stato il dialogo in macchina, mentre lo portavo a casa di lei (sarebbe quella di cui pago il mutuo io, ma pazienza) dopo aver ottenuto la magnanima concessione di stare un po’ con lui almeno durante il tragitto? Credete mi abbia detto cose del tipo “Tu e la mamma non vi volete più bene perché io sono mongoloide, vero?”Indovinato, ziocàn! Quando poi mi ha domandato “Ma tu mi vuoi bene papà?”, la corrente è tornata, i condotti lacrimali hanno ripreso a funzionare, e il vostro Zio Pep era lì, a guidare nel traffico della sera singhiozzando come un agnellino. “Non potrei volertene di più” gli ho detto. “Non potrei volertene di più”. “Cioè mi vuoi bene o no?”. Con lui bisogna essere semplici e diretti, a volte lo dimentico. “Ti voglio tanto bene. Te ne vorrò per sempre”. Appena fermi a un semaforo l’ho baciato, bacio impastrugnato di lacrime mie paterne sulla sua guanciotta bianca. Spero non mi fraintenderete se lo dico, ma in quel momento ci avrei fatto l’amore, per dimostrargli il mio Amore. E magari un minuto dopo avrei accelerato per sfracellarci contro un camion, per far tacere la mia disperazione. Solo che poi mi è toccato, cazzo, scoppiare a ridere: prima non mi ero reso conto di che zona stessimo attraversando, ma dopo aver baciato il mio bimbo lì fermi al semaforo, mentre lui s’era messo appoggiato con la tempia al finestrino, affacciato sul freddo niente di un mondo nemico, e io con un fazzoletto mi asciugavo le gocce salate, è venuto a bussare con le nocche al finestrino un tale che avevo già visto giorni prima, con la faccia da presidente iraniano. Ho fatto un gesto come quando si scaccia una mosca, e lui è sciancato via zoppicando brutto. Mancava solo ahmadinejad falsinvalido, in questa serata di merda.Per far tornare la luce nei suoi occhi mi esibisco allora nel mio numero preferito: mollo il volante anche se siamo già ripartiti e mi metto a far scorregge musicali con le mani, petegiando nell’incavo dei palmi uniti la famosa risata di Woody Woodpecker: Spropropròòòòprot, Spropropròòòòprot, pro-pro-pro-pro-prot! E Paolo s’illumina. Sono un buffone meraviglioso. Il mondo mi dovrebbe amare. La vita mi dovrebbe aiutare. Mi dovrebbe sorridere. Ma basta e avanza che mi sorrida, adesso, lui. Rimetto le mani sul volante giusto in tempo per evitare, per un pelo, un cassonetto della spazzatura. Ridiamoci un contegno.Papà! Diciamo le nostre parole magiche?Quelle proibite?Sii!In coro?Sii!Uno, due, tre:“Cristero-Peretta-Supposta-Siringa!”Ogni suo sorriso mi arricchisce più di un lingotto d’oro. Allora diventa il mio Orsetto Felicetto. Che mi insegna a vivere. Lui a me.
Rimasto solo, nel fare rotta verso la vecchia-nuova casa, ci do dentro a squarciagola con le mie canzoni rivedute e scorrette: Cerco un centro di gravità permanente, che non mi faccia mai dimenticare quanto stronza è la gente
A casa non riesco a farmi venir sonno, così decido di mettermi davanti al notebook per distrarmi con una bella bloggatina. E così, sul sito dell’amico Moby Knight, non vado a imbattermi proprio quella sera nella più bella e struggente canzone dei Sigur Ros (Svefn-G-Englar), con quel video spaccacuore pieno di ragazze e ragazzi down vestiti di bianco, movenze di angeli nella vastità dello scenario selvaggio-mistico della natura islandese? Nella colonnina di destra del blog scopro anche una bellissima foto di bambini come il mio, cui il mio amico ha aggiunto il pensiero delicato di una scritta che dice “Un sorriso per i bambini down”. M’intenerisco, lascio un lungo e commosso commento, poi mi ricordo di avere in casa il lime, lo zucchero di canna e il ghiaccio da tritare. Da tritare piano per non svegliare mammà. E il rum di quello giusto, per la mia fuga verso nuovi strati d’incoscienza degni d’essere vissuti, e d’auspicabile disgregazione mentale.Troppi daiquiri.


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