Magazine Psicologia

Attività fisica, depressione e sindrome da fatica cronica

Da Psychomer
by Maria Concetta Antelmi on novembre 19, 2012

Muoversi fa bene non solo al fisico, ma anche alla mente.

La stanchezza, fisica e mentale, è uno dei sintomi della depressione, ma al’Università di Durham, in North Carolina, è stato recentemente condotto uno studio sull’utilizzo dell’attività fisica come antagonista della depressione, che ha evidenziato come l’esercizio funzionerebbe tanto quanto i farmaci ed in alcuni casi potrebbe rappresentarne una valida alternativa.

Smiths, uno dei ricercatori che partecipano allo studio, ha commentato: “l’esercizio sembra agire proprio come un antidepressivo aiutando i pazienti a ristabilire comportamenti positivi; ad esempio nei pazienti ansiosi l’esercizio riduce le paure e le sensazioni corporee collegate all’ansia, come il battito cardiaco ed il respiro affannoso.” Secondo gli studiosi la poca voglia di fare, l’affaticamento fisico e la stanchezza mentale possono essere affrontati tramite l’impegno costante in una qualunque attività motoria.

In particolare la sua azione antidepressiva sembra essere dovuta a 5 differenti effetti:

  • induce l’organismo a rilasciare endorfine;
  • riduce il livello di cortisolo nel sangue, l’ormone coinvolto nello stress e nella depressione;
  • aiuta a vedere la vita con più ottimismo;
  • da una sensazione di soddisfazione che aiuta ad aumentare l’autostima;
  • aumenta il livello di serotonina;

La depressione non è l’unico “bersaglio dell’attività fisica, poiché aiuta a combattere l’invecchiamento, il declino mentale, ritarda l’insorgenza dell’Alzheimer e permette di affrontare la CFS (Chronic Fatigue Syndrome).

La CFS spesso inizia come una malattia simil-influenzale, con febbre, faringite, adenopatie, difficoltà cognitive, frequenti disturbi gastrointestinali e severo affaticamento; anche se la febbre e gli altri sintomi solitamente si attenuano, non scompaiono mai completamente per almeno sei mesi e spesso per molti anni. Holgate, docente all’Università di Southempton, spiega che: “la sindrome ha un innesco ambientale o microbiologico, come l’esposizione ad agenti chimici o a un virus, ma i fattori psicologici e sociali sono altrettanto rilevanti nella progressione della malattia. Gli interventi di terapia cognitivo-comportamentale ed esercizio fisico graduali hanno dimostrato di essere utili per parecchi pazienti”.

Di questo sembrano esseresene accorti anche gli esperti del Tufts Medical Center di Boston, diretti dal dottor Chenchen Wang, professore associato di medicina nel reparto di reumatologia, poiché hanno recentemente iniziato ad applicare ai pazienti complessi programmi di Tai Chi (attività fisica orientale, composta da movimenti ampi e lenti, che impegna mente e corpo). La disciplina si concentra sulla respirazione profonda ed il rilassamento, per agire sul Qi (energia vitale) presente in tutto il corpo.

Concludendo, il movimento fisico, sia attivo che passivo, fa sentire vivi nel corpo e nella mente, aiutando ciascuno di noi ad affrontare le difficoltà, piccole e grandi, che la vita ci pone davanti.


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