Magazine Società
di Emilio Carnevali e Cinzia Sciuto, da micromega.net
Arturo Parisi – uno dei referendari più convinti, spesosi anche dentro (e contro) il suo partito, il Pd, perché la raccolta di firme per il referendum sulla legge elettorale avesse successo – stamattina ha dichiarato (a Radio 24): «Quando abbiamo proposto i referendum non eravamo affatto sicuri che la Corte li approvasse ma ci siamo detti: qui l’edificio brucia e quando l’edificio brucia ci si butta anche se le probabilità di successo sono il 30 per cento». Ma allora perché questo stracciarsi le vesti per l’esito della decisione della Corte costituzionale, che ha respinto entrambi i quesiti referendari (uno per l’abrogazione totale e uno per l’abrogazione parziale dell’attuale legge elettorale)? Se buttandosi dalla casa in fiamme consapevoli di avere poche speranze di salvarsi poi... non ci si salva, beh... quantomeno non si tratta di una “sorpresa”.
Che l’ammissibilità dei referendum fosse in forte dubbio lo sapevamo tutti, lo sapevano gli stessi referendari, lo hanno scritto in tanti e non tutti «servitori del regime» (per esempio Michele Ainis sul Corriere della Sera del 16 settembre scorso, ripubblicato qui). E non perché la Corte sia necessariamente sporca, brutta e cattiva, ma perché talvolta le cose sono davvero complicate nei fatti e non sempre esiste una lettura univoca. D’altro canto, se così non fosse, non avremmo bisogno di una Corte con 15 giudici che spesso decidono a maggioranza e non all’unanimità: sarebbe sufficiente un computer in cui infilare i dati per ottenere la risposta «corretta».
E allora, se la bocciatura dei quesiti era pienamente nell’ordine delle cose, non si capisce dove stia l’attacco alla democrazia: a meno che non si pensi che il filtro della Corte sia inutile di fronte a milioni di firme "buttate nel cestino". Ma questa non sarebbe più una democrazia liberale, in cui le garanzie costituzionali contano persino (e per fortuna) più del popolo, ma una "democrazia populista", con tutti i rischi che tale modello porta con sé. Che poi il modo giusto per tentare di spegnere la casa in fiamme fosse il ripristino del Mattarellum – ovvero di un sistema elettorale sostanzialmente maggioritario in cui alle “liste bloccate” viene a sostituirsi il “nome unico bloccato” – è un altro aspetto dell'intera vicenda sul quale è lecito avanzare più di un dubbio. Ma passiamo oltre.
Il caso ha voluto che la decisione della Corte sui referendum arrivasse proprio nel giorno in cui alla Camera si decideva sulla richiesta di arresto (respinta) di Nicola Cosentino e in molti hanno creato un nesso (inesistente) tra le due notizie, provocando un illegittimo corto circuito secondo il quale la Casta (categoria in cui dunque mettere insieme parlamentari, giudici costituzionali, presidente della Repubblica e chi più ne ha più ne metta) ha salvato se stessa due volte, una dall’arresto di uno dei suoi membri e una dai referendum elettorali. Ora, nel particolare caso di Cosentino l'espressione avrebbe un suo senso nell'ipotesi che tutti i parlamentari avessero votato contro il suo arresto (ed è bene ricordare, innanzitutto, che Cosentino sarà comunque processato: ciò a cui è stato detto no è la richiesta di detenzione preventiva avanzata dalla procura della Repubblica di Napoli).
Si dà il caso però che l'arresto è stato respinto con 309 voti contrari e 298 favorevoli. Si tratta della stessa maggioranza che aveva votato l'ultima fiducia al governo Berlusconi (allora i voti erano stati 308). Sappiamo chi ha votato a contro: deputati del Pdl, di Noi Sud, dei Responsabili, alcuni del Gruppo Misto più 51 altri deputati molti dei quali leghisti. Fra i contrari ci sono anche i 6 deputati radicali, la cui posizione è stata sostenuta alla luce del sole e peraltro – condivisibile o meno – non è assolutamente in contrasto con la linea che da sempre ha ispirato questa formazione in materia di giustizia. Considerare questi 6 voti “determinanti” è inoltre un non senso logico, perché tutti e 309 sono voti determinanti: perché il voto di Cicchitto è meno determinante di quello di Turco?
Quanto ai politici del Pdl, sono loro una Casta separata dal Paese? Gli esponenti del Pdl hanno sempre sostenuto che Mani pulite era un colpo di Stato delle toghe rosse e dicendo queste cose alle ultime elezioni hanno raccolto più di 13 milioni di voti. Il loro leader è uno che da presidente del Consiglio si è recato in visita alla guardia di finanza e ha detto che c'è un principio di diritto naturale secondo il quale è moralmente lecita l'evasione delle tasse eccedenti il 30% dei guadagni. E dopo queste dichiarazioni è stato rieletto presidente “a furor di popolo”. Dov'è il complotto? Dov'è la macchinazione della Casta? In ogni caso abbiamo 298 voti di parlamentari che si sono dichiarati a favore dell'arresto. Ci sarà pure una qualche differenza fra i due gruppi agli occhi di chi si dice indignato per le malefatte della Casta? E se sì, perché continuare a sparare nel mucchio?
Il senso di frustrazione dei cittadini italiani è assolutamente comprensibile e trae origine da una quantità tale di ragioni che non è nemmeno necessario rievocarle ora. Chi tuttavia, in questo delicatissimo passaggio della vita civile del nostro paese, grida al golpe istituzionale, alimentando una delegittimazione indistinta contro la classe politica in quanto tale, o addirittura contro la figura del “politico” in quanto tale e dei partiti in quanto tali, rischia non solo di accelerare e aggravare quel fenomeno già in atto di sottrazione della sovranità a favore di “tecnici fuori dalla mischia”, ma anche di preparare la strada alle avventure più disparate e pericolose. Ci stiamo avvicinando al ventesimo anniversario di Tangentopoli, una stagione traboccante di speranza per un rinnovamento radicale del paese che è sfociata nell'ascesa al potere dell'“imprenditore prestato alla politica”. L'“uomo del fare” che in pochi mesi ha sbaragliato schiere di polverosi politicanti. All'Italia quell'avventura non ha portato molto bene. Vediamo di non commettere gli stessi errori.
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