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Camminare con lentezza

Creato il 27 luglio 2014 da Monsieurenrouge @MonsieurEnRouge

Cercavo da almeno due anni di ritagliare una finestra di libertà da impegni e scadenze per poter camminare, camminare fino a sentir male ai piedi. Camminare costringe a prendere il ritmo. Eppure non costringe, perché il ritmo puoi deciderlo tu, come puoi decidere di interromperlo in ogni momento. Non è lo stesso ritmo del viaggio in macchina, bicicletta, treno o aereo, né in qualità né in quantità. Non è lo stesso in quantità per evidenti motivi: è lento e per quanto rapidi si possa camminare, si sarà relativamente lenti rispetto ad un qualunque altro mezzo di trasporto. Non è lo stesso in qualità: la sua natura rende possibile un’ampia modulazione e prevede la possibilità di modificarlo o arrestarlo in qualunque momento. Si perde il ritmo fatto di sveglie, appuntamenti, impegni. Si perde il ritmo della città. Si prende un altro ritmo, determinato esclusivamente da te. Si perde l’eteronomia per l’autonomia. Si perde il ritmo prendendo il ritmo.

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Prima di partire da Bologna, città eternamente splendida, alla volta di Roma, città splendidamente eterna, qualcosa era stato pianificato. La partenza fissata a Perugia, l’arrivo a Monterotondo, vicino Roma. In tale città potremmo dormire qui, per tale tappa impiegheremo tale durata, tale parte di percorso la tagliamo per di là… poche di queste previsioni si sono concretizzate. Perché l’idea, diciamo pure velleitaria e presuntuosa, di conoscere in anticipo tappe, tempi, sistemazione, è tutta figlia di quel ritmo eteronomo che camminando si perde, poco a poco, sostituendolo con un ritmo autonomo, che si adatta di volta in volta alle circostanze, che non può essere previsto perché è plasmato sull’attimo, su ogni singolo passo e ogni singola piccola coincidenza. Che bel frutteto, anticipiamo il pasto riempiendoci lo stomaco di frutta. Una fontanella, facciamo una lunga pausa non prevista. Che villaggio ospitale, restiamo qui una mezza giornata in più. Un campo, dormiamo qui invece di raggiungere il centro abitato. Sono scelte che non puoi prevedere. Naturalmente situazioni del genere di verificano nel corso di qualunque tipo di viaggio, tuttavia raramente finiscono per determinare del tutto la sua stessa struttura. Invece, a piedi succede esattamente questo, in continuazione.

Passa qualche giorno prima che ci si renda conto che l’eteronomia ha lasciato il posto all’autonomia. Sorrido, come si fa teneramente di fronte a un bimbo ingenuo, ripensando all’attenzione che prestavo nel corso del primo giorno di cammino alle indicazioni preventivamente stampate da casa. Non sapevo ancora che il cammino si lascia seguire: è sufficiente camminare. E ripensando all’ansia di non trovare un posto in cui passare la notte. Non sapevo che spesso l’ospitalità delle persone in cui ci si imbatte è più squisita di quanto ci si aspetti, né che in mancanza di persone a cui chiedere, basta fermarsi lungo il cammino e dormire. E che dire della preoccupazione per la pioggia? Come consigliato da Luca Gianotti (autore di L’arte del camminare), è meglio occuparsi che preoccuparsi. E del ridicolo timore di non avere da mangiare a sufficienza? O di incontrare lungo la via chissà quale mostro del mondo animale? Molte di queste paranoie non sono che miti di città, che nascono, crescono e proliferano nella testa di persone immerse completamente nel ritmo eteronomo, incapaci di immaginarne uno diverso. Solo per fare qualche esempio, sarà difficile dimenticare lo stupore dipinto sui volti di chi, chiedendoci se avessimo mangiato, apprendeva che ci eravamo rimpinzati di frutta colta durante il cammino. Come sarebbe? State attenti! Con i frutti non si scherza! Potrebbero essere velenosi! Ma solo chi non conosce la frutta che come merce da acquistare al supermercato identificandola dall’etichetta opportunamente disposta sul prodotto può davvero risultare tanto preoccupato all’idea di mangiare qualcosa che di etichetta non ne ha. A distinguere un albero da frutto anche a una certa distanza, o a distinguerne uno dall’altro, si impara facilmente. La prima barriera è psicologica.

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Un altro mito è quello dei cinghiali: state attenti ai cinghiali, i cinghiali vi mangeranno vivi, se ne incontrate uno scappate senza voltarvi indietro. Comprendo l’apprensione di chi è rassicurato dal paesaggio urbano e vive con terrore una passeggiata nel bosco, ma c’è da dire che l’incontro ravvicinato con un cinghiale è estremamente raro, soprattutto se si percorrono sentieri battuti e che molto spesso costeggiano terreni coltivati. E, anche quando se ne incontra uno, deve darsi il caso che sia una femmina in presenza dei suoi piccoli e che li veda minacciati, prima di manifestare aggressività. Normalmente, gli animali selvatici cercano di evitare il contatto con l’uomo.
Un fatto curioso riscontrato nelle persone di città è più una rimozione che un mito: non esistono sentieri. Da un punto all’altro ci si sposta seguendo l’asfalto, nel peggiore dei casi esiste una strada sterrata. Tra una striscia di asfalto e l’altra non c’è niente di percorribile. In realtà, dato che la maggior parte si sposta in macchina, questo è del tutto comprensibile: per riprendere le parole di Wu Ming 2, quando ci si muove in macchina si è chiusi dentro una scatola. Non solo non esiste niente di percorribile aldilà della striscia di asfalto su cui rotolano gli pneumatici: è la quasi totalità della realtà esterna a non esistere.

Il mezzo di trasporto influenza profondamente il modo di percepire la realtà circostante. In macchina, se si dispone di aria condizionata funzionante, addirittura la temperatura esterna diventa irrilevante. A piedi, si impara ad apprezzare piccole cose che diversamente sarebbe stato difficile immaginare di apprezzare a tal punto: l’ombra di un albero, un minuscolo corso d’acqua, una brezza rinfrescante, un albero di fichi sul ciglio del sentiero. In una giornata di cammino sotto il sole intenso lungo un percorso scarsamente ombreggiato, siamo stati per almeno mezz’ora a discutere della possibilità che una nuvola si avvicinasse e nascondesse la fonte del nostro momentaneo patimento termico, naso all’insù guardando il cielo e parlando della forma della nuvola che avrebbe dovuto salvare la nostra pelle sudata, della direzione del vento, dei movimenti e le mutazioni del bianco e dell’azzurro. Quando l’agognata nuvola ha esaudito i nostri desideri. Cambiano gli argomenti di discussione, cambiano le proporzioni del tempo loro dedicato, cambia la percezione della realtà. Chi vuole fare una passeggiata domenicale, spera di trovare una giornata di sole. Chi cammina per una settimana, spera di trovare il sole coperto che magari farebbe rinunciare alla passeggiata domenicale perché “c’è brutto tempo”.

La lentezza del cammino permette di accorgersi di dettagli inesistenti per chi si sposta più rapidamente. Quello che per un conducente di macchina è un generico “paesaggio umbro”, il camminatore lo analizza, in senso etimologico, lo spezzetta, passo dopo passo, avverte le piccole differenze tra un sentiero e l’altro, tra un versante di una collina e l’altro. Ci si accorge subito delle altrimenti impercettibili differenze di microclima tra una valle e quella successiva, perché da una valle all’altra variano i tempi di maturazione dei frutti, con grande gioia del camminatore. Se poco prima gli alberi di fico e le more erano immature o del tutto assenti, svoltata quella curva che si arrampica sul costone sopraelevato apre ad una vallata in cui mele e pere lasciano il posto a fichi e more in abbondanza, come se il tempo accelerasse di un mese.

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Il cammino è indicato da un codice di simboli che il camminatore impara ben presto a interpretare. Le città e le campagne traboccano di segni ben evidenti per chi li conosce, ma insignificanti se non invisibili per chiunque altro. Chissà quanti messaggi nascosti sono invisibili ai più. Strisce e simboli in giallo, o rosso e bianco, o giallo e blu, ci aiutavano nel seguire la via o nel riprenderla quando l’avevamo persa. Ci rincuoravano quando li vedevamo dopo molto tempo, ci infastidivano quando si facevano insistenti. Il cammino è un continuo dialogo coi simboli, tra i quali e il camminatore si stabilisce una rapporto contraddittorio fatto di fiducia ma anche di stizza. Il camminatore sa che quel simbolo è l’ultimo relitto dell’eteronomia che ha lasciato gradualmente spazio all’autonomia. Quel simbolo è utile perché gli indica una strada, è amichevole perché può aiutare a ritrovarla, ma al tempo stesso costringe il suo percorso entro una via più o meno definita. La scelta di seguire o meno il cammino indicato dipende tuttavia esclusivamente dal tipo di viaggio che si vuole intraprendere. In particolare, noi l’abbiamo seguito da Perugia a Spoleto, poi abbandonato per fare di testa nostra, poi ripreso in prossimità delle Marmore.

Infine, c’è una cosa che rende il viaggio a piedi unico: l’inaspettata quantità di persone che si incontrano. Non si direbbe, ma soprattutto le campagne e i piccolissimi paesi traboccano di forme di vita umana. Il più delle volte saranno ben contente di dare aiuto, fornire indicazioni, offrire ristoro, cibo o acqua, regalare il piacere di una chiacchierata, raccontare storie e trasmettere conoscenze. Camminare significa creare una rete di relazioni, dare vita e voce a racconti e narrazioni. Questo aspetto, per me, è senza dubbio il più bello di questo modo di viaggiare.


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